La Grande Narrazione? Ha traslocato in periferia

Il volto duro e maturo della modernità si rifugia dove gli individui sanno ancora confrontarsi con l'abisso della storia. Come in "Churramabad" di Andrej Volos

La Grande Narrazione? Ha traslocato in periferia

Tutti i romanzi sono romanzi storici. Alcuni lo sono in senso stretto, e vengono chiamati esplicitamente in questo modo perché la storia è il loro oggetto. Ma tutti i romanzi (anche quelli d'amore, di fantascienza, d'avventura o polizieschi) si svolgono nella dimensione della storia, della finitezza, del tempo che vede nascere e morire. Il romanzo, a differenza del racconto, presuppone un'età adulta e disincantata dello spirito, quando - spesso all'improvviso - ci coglie la certezza di non essere eterni.

Tale certezza però non conduce alla disperazione, che nasce dal rifiuto di questo dato ineluttabile: la nostra mortalità va piuttosto accettata e, con essa, va accettata la storia, che stringe in brevi segmenti di tempo il nostro rapporto con il Bene, con la Giustizia, con la Bellezza, con Dio.

La storia diviene così il campo di battaglia dove è sempre possibile che il bene soccomba e il male la faccia franca, e dove i destini umani, e spesso i destini di interi popoli, nascono e si dissolvono nel segno della menzogna. Così da far erompere un grido, talvolta sdegnato e iroso, talvolta sconsolato, o perplesso, talvolta meravigliato: perché? In questo grido, nascosto nelle vicende umane, nell'irrequietezza degli eventi che non lasciano mai acquietare le nostre biografie, è il segreto del narrare.

Ho letto con avidità Churramabad di Andrej Volos (Jaca Book, pagg. 575, euro 22, traduzione Sergio Rapetti): un romanzo di cui non si è molto parlato, sarà perché la forma dell'epos ci è diventata estranea, sarà perché Volos ci racconta la storia di un mondo a noi ancor più estraneo, il Tadzikistan. Chi di noi conosce il Tadzikistan? I flussi di migrazione ci hanno fatto conoscere altri popoli: rumeni, moldovi, ucraini, mentre le notizie su questo antico popolo, finito anch'esso nelle spire indifferenti dell'impero sovietico, sono molto scarse. Che ha a che fare con noi il Tadzikistan? Ciò nonostante - come avvenne nell'Amleto per l'attore che recitava il dolore di Ecuba - noi possiamo ugualmente commuoverci fino alle lacrime leggendo le vicende di questi uomini sconosciuti che scontano la vita in un paesaggio che solo le immagini tristi del vicino Afghanistan possono aiutarci a visualizzare.

Romanzo e, insieme, poema epico, Churramabad merita, lui sì, l'appellativo di capolavoro che spesso noi sprechiamo per prodotti industriali dove al massimo si può apprezzare l'estro di una simpatica trovata. Ma Churramabad non scalerà mai le classifiche di vendita perché la carne e il sangue e le ossa che lo popolano non trovano, nella nostra cultura gregaria - non direi mai queste cose per la Francia, o per la Germania - l'ampiezza percettiva di cui hanno bisogno. Le nostre antenne letterarie non raggiungono nemmeno il Marocco, o il Libano, e a fatica qualche volta captano voci scandinave, e se da noi si parla di Afghanistan, o di Pakistan, è sempre con accento americano.

Il romanzo si apre, direi si spalanca, sullo sguardo di una donna anziana rivolto verso un enorme cimitero in salita. La donna non riesce quasi più a camminare, ma ostinatamente si fa sostenere, vuole salire, cerca qualcosa di importante, il filo di una grande narrazione comune nella quale fluiscono tutti i nostri racconti. Altri scrittori più fortunati di Volos, meno tadziki e più cinesi per esempio (c'è una bella differenza: Dušanbe o Shanghai?), ci sono tuttavia testimoni di un fatto: che la Grande Narrazione è ormai prerogativa di nazioni e situazioni che si trovano alla periferia del nostro mondo, spesso fuori dai suoi confini. Narrare non è raccontare, è qualcosa di più, è un gesto comune (in altri tempi avrei detto: collettivo), e noi stiamo perdendo tutto questo, il nostro sguardo si fa più miope, il respiro più breve, come se il tanto faticato disincanto, che produsse il miracolo del Romanzo, non abitasse più qui, come se ci fossimo nuovamente precipitati alla ricerca di nuovi maghi, di nuovi incantesimi.

Così il volto duro, maturo della modernità si rifugia là dove l'individuo sa ancora confrontarsi con l'abisso della storia, e alla prima difficoltà non imbraccia il fucile, non spara all'impazzata, non fa strage di bambini, non sgozza la moglie o la fidanzata, ma cammina, continua a camminare accettando il veleno del tempo. Un uomo solo non può reggere il peso della storia: a volte ho il sospetto che l'incertezza e la rabbiosità diffuse e la demoralizzazione che ci circondano nascano da una solitudine profonda. Per narrare, per stare al livello non solo della storia, ma della nostra difficile maturità, occorre perlomeno conoscere il significato di parole come popolo, società, solidarietà. Occorre una percezione esistenziale del nesso - non razza, cultura o ideologia ma Destino - che ci lega. Occorre cogliere le cause comuni, quando si presentano.

La cultura

orale, i miti fondativi, le leggende, le storie tramandate sono l'alimento di questa coscienza comune. Non è un caso che la vera Narrazione e (ahimé) i veri, grandi narratori, sorgano là dove questa cultura è ancora viva.

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