La guerra (fredda) delle immagini

Una graphic novel, e la sua introduzione, per riscoprire quanto contino matite e pennelli nello scontro tra idee

Da sempre le guerre si combattono, oltre che con le armi, con parole e immagini: per incutere terrore al nemico, per convincersi di essere nel giusto. È ancora più vero per la Guerra Fredda che ha visto contrapporsi le due superpotenze tra la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del muro nel 1989, con il crollo dell'impero sovietico. Il simmetrico ricatto nucleare imponeva di limitare l'uso delle armi per evitare catastrofiche escalation; micro-conflitti devastavano zone periferiche, lontano dal cuore delle reciproche zone d'influenza, ed erano combattuti spesso per procura. Guerra Fredda, ma totale. Ogni dettaglio, ogni episodio poteva avere un'importanza determinante. Elfo ha costruito la sua Arte del complotto partendo da una vicenda in apparenza marginale: il sostegno dato dai servizi segreti statunitensi - insomma, dalla CIA - ad alcuni artisti, esponenti dell'arte astratta e della pop art. Che i servizi segreti dei due blocchi avessero sostenuto nei Paesi del campo avverso alcune forze politiche (magari con qualche sfumatura terroristica) e diversi intellettuali (con le loro riviste) era noto da tempo. Ma quello era il dominio della parola, arma cruciale di ogni battaglia ideologica. Meno noto (e meno prevedibile) che il sostegno dei servizi segreti americani sia andato anche ad alcuni artisti visivi: e non per opere chiaramente propagandistiche o militanti, ma per correnti artistiche in sostanza a-ideologiche come l'action painting o che parevano addirittura criticare il consumismo made in USA, come la pop art. Il calcolo deve essere stato sottile, fondato su un'acuta consapevolezza storica.

Quella che salutò con entusiasmo e accompagnò i primi passi della Rivoluzione d'Ottobre nel 1917 era un'arte che si voleva rivoluzionaria, avanguardistica e tendenzialmente astratta. Il suo diapason fu il Quadrato nero di Kazimir Malevich, dipinto nel 1913, alcuni decenni prima che i Rolling Stones si mettessero a cantare Paint It Black : «I wanna see it painted, painted black, black as night, black as coal/ I wanna see the sun blotted out from the sky/ I wanna see it painted, painted, painted, painted black, yeah!».

Quella stagione entusiasmante durò poco: i rivoluzionari, quando salgono al potere, hanno una tendenza (pare) inevitabile a scimmiottare l'arte che indorava l'ancien régime che hanno appena abbattuto: è accaduto a Mosca negli anni Venti, come nella Parigi napoleonica, è accaduto anche nell'Italietta mussoliniana di Strapaese e del ritorno al classicismo, e nel Reich hitleriano con i roghi e le persecuzioni dell'“arte degenerata”. Ma non era solo questione di gusto: per i custodi dell'ortodossia, il mondo uscito dalla rivoluzione era perfetto e rappresentava in sé un'opera d'arte che si sovrapponeva alla quotidianità dei cittadini: quadri, romanzi, film, poesie non avrebbero potuto (e dovuto) far altro che riflettere quel paradiso in terra. Al massimo, gli artisti potevano indicare la strada per compiere l'ultimo tratto del cammino verso l'ideale, con opere opportunamente edificanti, propagandistiche, rassicuranti. Nella Russia stalinista, la repressione contro le opere e gli artisti d'avanguardia, accusati di «formalismo», si fece presto feroce. Il “futurista” Vladimir Majakovskij si suicidò nel 1930, decine di artisti finirono fucilati dal KGB o nei gulag siberiani. La linea di partito indicava un'altra strada, meno destabilizzante degli inquieti pruriti sperimentali: fu il «realismo socialista» legittimato da Lukács e teorizzato da Zdanov, arte ufficiale dell'URSS per decenni. Nell'Italia del dopoguerra, il PCI di Togliatti si allineò senza esitazione nel sostegno al realismo (e al neorealismo) contro le avanguardie artistiche e teatrali, chiudendo una rivista come Il Politecnico di Elio Vittorini e attaccando gli intellettualismi cinematografici alla Antonioni...

Sulla base del principio che «i nemici dei miei nemici sono miei amici» (che la CIA ha poi adottato in altre occasioni, con risultati a volte catastrofici), tra la fine degli anni Cinquanta e l'alba dei Sessanta poteva apparire logico sostenere un'arte che cancellava ogni pretesa realistica nell'energia del gesto pittorico (come faceva Jackson Pollock), o talmente «reale» da azzerare la nozione stessa di realtà (la scatola di zuppa Campbell trasformata in opera d'arte da Andy Warhol). Era un'arte per pochi (almeno allora), lontanissima dal gusto e dalle aspirazioni dell'americano medio, spesso messa alle berlina dalle vignette umoristiche. Ma qualcuno considerò quelle immagini un'arma strategica contro l'Impero del Male. La guerra delle immagini si era così affiancata a quella delle parole. Parole vere e parole false venivano abilmente mixate dalla propaganda dei due blocchi. I due Poteri enormi e contrapposti complottavano infaticabili per il dominio del mondo. \

Quello del complotto (anche nel legame con il suo doppio, il segreto) è uno dei temi chiave della nostra epoca di poteri invisibili e di terrorismi mediatici: il suo enigma ossessiona da sempre un intellettuale come Umberto Eco (dal Pendolo di Foucault , 1988, al Cimitero di Praga , 2010), mentre le più strampalate teorie si diffondono in rete. E la rete diventa un campo di battaglia, infiammato da allarmi isterici: da un lato si temono le presunte terribili trame del gruppo Bilderberg (e di altre cricche multinazionali), dall'altro agiscono i presunti vendicatori di Wikileaks, che rivelano segreti di Stato e smascherano cabale e intrighi. \Ma attenzione. Dietro a questo confronto tra piccoli e grandi complotti, a questa lotta tra immagini realistiche e immagini astratte, nelle pagine dell' Arte del complotto si combatte anche un'altra guerra: quella tra le immagini e le parole, un confronto che ha una storia lunghissima, che affonda le sue radici nella sfera del sacro. Le immagini possono essere pericolose, possono incrinare la verità della parola. Per questo diverse religioni addirittura le vietano. Lo stesso cristianesimo, alle sue origini, è stato campo di battaglia tra gli iconoclasti, che volevano bandire le icone, e chi invece ne ammetteva l'uso, e magari lo incoraggiava. Nella nostra era iconica, c'è un altro metodo per neutralizzare le immagini: la ripetizione. È accaduto per esempio a partire dal 22 novembre 1963, con le immagini dell'attentato al Presidente Kennedy. Quel breve filmato in bianco e nero, così «vero», è stato replicato all'infinito dalle televisioni di tutto il mondo e si è inscritto nel nostro immaginario, tanto da diventare il fulcro di decine di teorie del complotto, che sono tracimate anche nei romanzi e nei film. Allora come restituire forza e verità alle immagini? La soluzione di Elfo è inscritta nella sua pratica artistica.

Le sue immagini diventano una leva per «garantire» la verità del suo racconto: la minuzia della documentazione che sottende ciascuna delle sue vignette, a partire da documenti d'epoca, dà concretezza e credibilità - e addirittura legittimità - al racconto.

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