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I comunisti nella Resistenza: combattivi ma inaffidabili

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto de I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (Mursia 2020)

I comunisti nella Resistenza: combattivi ma inaffidabili

Il ruolo dei comunisti italiani nella Resistenza assume una certa rilevanza sin dall’autunno del 1943. Insieme al Fronte Militare Clandestino i comunisti, nell’ambito della Resistenza che definiremo “civile" (per distinguerla da quello di Montezemolo), iniziano ad organizzarsi e a colpire già nelle settimane successive alla caduta di Roma.

Sono tosti, questo nessuno poteva (e può) metterlo in dubbio, istruiti e formati da miliziani che hanno già combattuto una guerra civile, quella spagnola, dalla quale sono usciti sconfitti sul campo, ma non nella intenzione di perorare la causa comunista.

In alcune realtà, come in Umbria ed in Abruzzo poi, i prigionieri di guerra jugoslavi evasi da centri detentivi quali Colfiorito e dalla Rocca di Spoleto, si uniscono alle formazioni locali recando con sé il know how di combattenti del disciolto esercito jugoslavo e dell’Esercito Popolare di Liberazione di Josip Broz.

Capaci, dunque, ma poco inclini alla collaborazione. Nel 1944, quando le formazioni intensificano l’azione contro gli occupanti tedeschi, emergono le prime difficoltà con le altre anime della Resistenza, in particolare con i badogliani, con i militari e con gli autonomi. Qual è lo scopo della lotta? Colpire indiscriminatamente in nemico, causando però forti perdite fra i civili per rappresaglia o selezionare gli obiettivi? E ancora: come comportarsi con presunte spie e accusati di collaborazionismo? Processo o fucilazione sommaria?

Domande alle quali non sempre si dà una risposta chiara, lasciando dietro di sé frizioni che portano alla conflittualità ed al sospetto reciproci.

Se per i badogliani e per gli autonomi la sconfitta militare dei tedeschi e dei fascisti repubblicani ha la precedenza, per i comunisti la guerra di liberazione coincide con la guerra rivoluzionaria. Insomma, una replica di ciò che era già accaduto in Spagna quasi un decennio prima, con conseguente frammentazione del fronte repubblicano a vantaggio delle forze franchiste.

“I compagni devono ricordare che esiste una sola bandiera, il Tricolore e che l’inno è il Piave non l’Internazionale” ammoniva così, Celso Ghini, i combattenti della Brigata “Gramsci”, operante fra le province di Terni e di Rieti. Niente bandiera rossa, dunque e rammentare che il Piave mormorava era l’inno ufficiale del Regno del Sud, l’entità statale combelligerante degli Alleati alla quale tutte le formazioni partigiane ed il Corpo Italiano di Liberazione dovevano prestare obbedienza e fedeltà. O, in altre parole, di quelle’Italia per la quale combattevano, divisioni a parte.

Certo, difficile che ogni gruppo, specie nell’Italia centro-settentrionale, obbedisse agli ordini del Comitato Liberazione Nazionale e del Comando Supremo di Brindisi; tuttavia, seguire le direttive di quei due organi significava essere partigiani. Chiunque operasse al di fuori sarà stato anche combattente, certo non partigiano.

È ciò che accade con gli slavi. Malgrado vi siano delegati dell’Esercito Popolare di Liberazione in seno al CLN, nelle realtà locali i partigiani jugoslavi rifiutano di prendere ordini da militari e da politici di un paese che, nel 1941, li aveva invasi insieme alla Germania. Inoltre, le maggiori aggressività e combattività, permettono loro di muoversi con maggiore autonomia, se non di imporsi sugli italiani certamente motivati, ma meno preparati.

Nel ’44, a Salerno, Togliatti è chiaro: fino alla fine del conflitto le formazioni garibaldine devono concentrarsi sulla lotta a tedeschi e fascisti, sostenendo lo sforzo del Regno del Sud (riconosciuto, a marzo, anche dall’Urss) e degli Alleati. Come accennato, però, non va sempre così e le divisioni restano.

Sempre a marzo, ad esempio, i gappisti romani - operando in modo autonomo - colpiscono i coscritti altoatesini del 6° Regiment-Polizei “Bozen”, causando 30 morti e provocando, così, la terribile rappresaglia che porterà all’orrore senza fine delle Fosse Ardeatine. Un eccidio tedesco, non ci sbagliamo! Ma la cui responsabilità non può - anche in piccola parte - non cadere su chi forse mancò di calcolare bene i rischi di quella sciagurata azione.

I comunisti sono combattivi, ma fanno paura specie nel Friuli dove la convergenza con il IX Corpus sloveno porta le brigate autonome ed osovane a prendere le distanze dalle iniziative dei garibaldini e, soprattutto, a rifiutare la sottomissione ai titini.

La strage di Porzus (che ancora fa sbuffare di noia le vestali della Resistenza) è in verità un fatto molto grave e non solo per i morti rimasti a terra. E’ la dimostrazione, chiara, che una consistente fetta di partigiani comunisti (non tutti per fortuna!) è più interessato a finalità politiche che non a difendere l’integrità territoriale della Patria.

Saranno, d'altronde, gli stessi partigiani autonomi a costituire, nell'immediato dopoguerra, le primissime strutture di intelligence denominate stay-behind. Il generale Raffaele Cadorna (dirigente del CLN e capo del Corpo Volontari della Libertà) autorizza la formazione dell'Organizzazione "O" (Osoppo) sin dal 1946, con lo scopo di monitorare i confini orientali d'Italia. E di tenere sotto controllo l'ambiguo atteggiamento dei comunisti italiani. Forte di circa 4000 fra uomini e donne, erede delle tradizioni e del valore delle Brigate partigiane "Osoppo-Friuli", la "O" resta attiva fino al 1956 quando parte delle sue funzioni è trasferita alla struttura "Gladio", orientata su tutto il territorio nazionale. Ispirata alla Resistenza e con vertici partigiani, "Gladio" verrà sciolta, fra mille polemiche ed accuse infondate, agli inizi degli Anni '90.

La Resistenza tradita Consapevole dell'impossibilità di una svolta rivoluzionaria ed ormai istituzionalizzato, nella Repubblica Italiana il Partito Comunista è il principale partito d'opposizione, ma con un peso ed una capacità di mobilitazione impressionanti. Consapevoli dell'importanza della memoria per un Popolo, i comunisti imprimono alla storia del movimento di liberazione un orientamento che li vede principali protagonisti di quella stagione di guerra e di libertà. Dimenticando si fosse trattato di una guerra... civile (termine che sarà accettato dalla storiografia grazie a Claudio Pavone e solo nel 1991), la Resistenza è stata trasformata in una sorta di mito fondante della Repubblica. L'importanza del Movimento partigiano non è mai stata messa in dubbio, ma la sua - poca - incisività sugli esiti della Campagna d'Italia ed il fatto che l'impegno dei partigiani non sia stato preso in considerazione dagli Alleati alla Conferenza di Pace, sono elementi tali da mostrare l'inconsistenza della sua apologia.

Insomma, come in Spagna, la guerra sul campo era stata di fatto persa: gli eccessi, l'inaffidabilità e gli interessi, non sempre coincidenti con quelli nazionali, avevano finito per isolare i comunisti nello stesso movimento di liberazione. Per recuperare terreno e consenso, si combatté per decenni un'altra guerra, stavolta culturale, al fine di far passare l'idea che la Resistenza fosse a trazione "rossa". Un esempio? L'ANPI, principale sigla combattentistica, non è l'associazione di tutti i partigiani (malgrado così sia ormai conosciuta) ma di quelli legati all'area... diciamo socialdemocratica. Lo stesso Enrico Mattei, che ne era stato fondatore, se ne era discostato nel 1947 perché non in linea con le posizioni del direttivo.

L'atteggiamento ostile e le accuse di revisionismo rivolte agli storici meno schierati hanno rappresentato e rappresentano, poi, ulteriori testimonianze di come quel capitolo, drammatico ed eroico della nostra Storia, siamo ormai considerato non patrimonio collettivo ma di una parte politica.

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