I babboccioni creano i bamboccioni. Potrebbe essere questa la sintesi finale della gigantesca questione padri-figli. Questione crucialissima. Questione decisiva dell'adultezza di una società. Della sua capacità di reggere l'urto delle difficoltà e di progredire. Siamo noi genitori troppo teneri e «accuditivi», divenuti «sindacalisti dei nostri figli», ad averli trasformati in soggetti deboli e viziati. Dei rammolliti, si sarebbe detto nel linguaggio più spiccio di qualche decennio fa. Il felice neologismo sui babbi creato da Nicola Persico (Lavoce.info) è la replica perfetta a quell'altro, più noto, coniato dall'ex ministro dell'Economia Padoa Schioppa. In Contro i papà (Rizzoli, pagg. 154, euro 14), lucido reportage educativo sugli errori e omissioni della generazione dei baby boomers nei confronti della loro prole, Antonio Polito analizza «Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli». La colpa è, inappellabilmente, di noi babboccioni. Anziché esortare i nostri figli a restare «affamati e folli» secondo il verbo di Steve Jobs, abbiamo detto loro «restate sazi, restate conformisti». Fortuna che qualcuno comincia a ribellarsi, sia dal basso che dall'alto.
Da qualche giorno martella in radio il nuovo rap di Emis Killa Il king è mio papà: «Con i tuoi amici fai questo, fai quello, mi spiace bello, ma il king è mio papà... Lui mi ha lasciato più esperienze che consigli/ e io consiglio di fare lo stesso coi vostri figli». Chissà che il modello non sia proprio quello de I soliti idioti a cui il rap farà da colonna sonora.
La questione, infatti, varca la soglia generazionale dei «giovani». E si manifesta a tutte le latitudini del mondo occidentale. I giornali inglesi hanno pubblicato qualche giorno fa l'amara lettera scritta da un padre sessantasettenne ex ufficiale di Marina ai suoi tre figli, a loro volta genitori, dopo una serata di vittimismi e rivendicazioni. «Non voglio più sentire nulla da voi, fino a quando avrete un risultato o un progetto realistico per il sostegno e la felicità dei vostri bambini da raccontarmi». Dopo esser stata condivisa in rete alcune migliaia di volte, la lettera è arrivata sulle pagine del New York Times. E per restare in Italia, è di qualche settimana fa, proprio sulle pagine del Giornale, l'intervista-sfogo di Giorgio Chiesa, imprenditore e chef stellato titolare di un noto ristorante a Cuneo, che ha confessato la propria amarezza nei confronti del figlio Cristopher, 21 anni, «rivoluzionario» studente di Scienze politiche alla «Sapienza», arrestato durante i disordini della manifestazione del 14 novembre e subito scarcerato: «Il giudice ha sbagliato, dopo gli scontri mio figlio doveva restare in cella», ha detto il padre. Polemiche, dibattiti, interventi.
L'esasperazione può provocare anche scelte estreme. In un bistrot di Bruxelles tutti gli anni in primavera si dà appuntamento per il «No Papà Day» un gruppo di anti-genitori che hanno come programma il non generare figli. Una minoranza crescente, composta da filosofi anarchici come il belga Noel Godin («I figli sono un contributo allo sfruttamento capitalista»), il rapper dark Fuzati («La peggior specie si perpetua») o lo psicologo edonista Michel Onfray che, alla domanda sulla procreazione, risponde: «Ho di meglio da fare». Estremisti che non fanno tendenza, può darsi. Ma sintomi inquietanti.
L'Italia è il Paese con la più alta percentuale di famiglie proprietarie di case. Pensando al futuro dei propri figli, chi non dispone di risorse economiche illimitate preferisce lasciare in eredità un bell'appartamento. Inglesi e americani, osserva Polito, vivono in affitto e destinano i loro risparmi nell'istruzione dei figli, scegliendo college qualificati. Chi non è in grado di sostenere i costi può accedere ai buoni-studio dello Stato e da restituire nei primi anni di lavoro. In Italia, mentre il sostegno ai «capaci e meritevoli» è rimasto un enunciato della Costituzione, lo Stato-mammone ha fornito ai nostri giovanotti l'«università sotto casa». Guai che dovessero scomodarsi vivendo fuori-sede. Secondo Alberto Alesina e Pietro Ichino che hanno studiato il caso Bocconi, «i dati dicono che gli studenti che si iscrivono da più lontano, in particolare dal Sud, sono quelli che hanno una performance universitaria migliore». I corsi costano e lontano dal «calduccio del welfare domestico» non si è così protetti. Meglio sbrigarsi.
Secondo Polito sul mestiere del padre si consuma «la divisione ideale e culturale tra i due veri partiti in cui è spaccata l'Italia dagli anni '70 in poi: quelli che pensano che tutto ciò che non va sia colpa della società, e quelli che pensano che sia anche colpa nostra; quelli che credono nella responsabilità individuale e quelli che la rifiutano; quelli che vedono solo diritti e quelli che riconoscono anche l'esistenza di doveri». Il «mito dell'egualitarismo» attecchito in quegli anni ha azzerato il principio di autorità, la cultura della meritocrazia, l'ambizione di costruirsi un futuro, una certa utilità sociale dell'idea di successo. I padri si sono trasformati in fratelli, in amici. In famiglia si va tutti d'accordo, senza conflitti, adagiati sul divano, dal quale si persegue ciò che è già apparecchiato e a portata di mano. È soprattutto il concetto dell'autorità che è stato completamente svuotato. Non tanto inteso come presenza gerarchica che impartisce regole e ordini. Quanto, come sottolinea il dantista Franco Nembrini in Di padre in figlio (Ares, pagg. 256, euro 15), come «esistenzialità di una proposta», come esperienza di «ciò che fa crescere». Oggi della correzione non si parla più, annota Polito.
Forse la questione educativa non riguarda l'esercizio di un ruolo, ma chiama in causa la qualità e la consistenza ultima della vita degli adulti.
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