I sinceri democratici cedono alla tentazione dell’anti democrazia

Che strano se è la sinistra progressista (non la destra "golpista") a criticare la sovranità popolare, il Parlamento e il principio di maggioranza...

I sinceri democratici  cedono alla tentazione  dell’anti democrazia

Aboliamo la democrazia? È la tentazione che scorre, dissimulata, in Occidente, e in particolare in Europa, e più in particolare in Italia. Ad acca­rezzare l’idea non è una residua setta di biechi reazionari e golpisti e nem­meno una consorteria di aristocrati­ci ed elitari, figli di Mosca e Pareto. Ma una corte di democratici progres­sisti, riveriti professori e ossequiati circoli di intellettuali, in gran parte provenienti da sinistra se non addirit­tura dal comunismo.

Nel prossimo numero de Il Mulino , la rivista diretta da Michele Salvati, economista libe­ral della sinistra postcomunista, ap­parirà un saggio sulla crisi della de­mocrazia di Alessandro Pizzorno, au­torevole sociologo e politologo che ha insegnato a New York ma anche a Teheran, passando per Oxford e Mila­no. Se ne parlerà domani in un dibatti­to alla New York University di Firen­ze, dove interverranno tra gli altri lo stesso Pizzorno e Nadia Urbinati che ha pubblicato un saggio sull’argo­mento ( Democrazia rappresentati­va. Sovranità e controllo dei poteri , Donzelli) che secondo Daniela Coli capovolge le tesi della versione ame­ricana del suo stesso saggio. Il promo­tore dell’incontro fiorentino è Wil­liam E. Klein, estimatore di Toni Ne­gri e delle Coop rosse.

Il filo condutto­re è ripensare la democrazia dopo la crisi economica, che impone più go­vernance e meno parlamento, più esperti e meno politici, più tecnici e meno popolo. Se l’avesse sostenuto un autore o un club di destra, nota la Coli, «si sarebbe scatenato il mondo intero » . Ho letto in anteprima il saggio di Pizzorno, In nome del popolo sovra­no? che ne costituisce il riferimento di base. Pizzorno confessa di essere infastidito dalle polemiche sui tecni­ci e dagli appelli a tornare al popolo sovrano e alla politica. Il suo saggio è una dura requisitoria contro la demo­crazia rappresentativa fondata sulla maggioranza e sul suffragio universa­le. Una critica alla democrazia in chia­ve elitaria nel contesto del capitali­smo avanzato. Una critica alla demo­crazia, analoga a quella di Salvati, che pur partendo da premesse diffe­renti approda a esiti simili a quelli di autorevoli intellettuali comunisti co­me lo storico Luciano Canfora e il let­terato Asor Rosa.

Fino a ieri la critica alla democrazia era travestita in una critica alla deriva populista; ora si fa esplicita, si estende alla democrazia rappresentativa, e si invocano gli esperti, le élite. Tecnocrati del Capita­le e giacobini di ritorno combaciano nel maledire la democrazia fondata sulla sovranità popolare e nazionale. La democrazia e la sovranità popo­lare appaiono a Pizzorno un mito e il voto stesso ha per lui solo un valore simbolico e rituale per uscire dalla so­litudine sociale. Dove vige il criterio di maggioranza peggiora la qualità delle decisioni, soprattutto in temi economici e sociali. La democrazia sancisce a suo dire il primato delle masse incompetenti sulle élite com­petenti. E produce governi affetti da «miopia» che danno vantaggi imme­diati ai propri elettori ma danneggia­no l’economia e società dei Paesi. Le società più avanzate, nota Pizzorno, tendono ormai a trasferire alla gover­nance dei tecnici, decisioni e poteri sottratti alla democrazia, alla sovrani­tà popolare e al parlamento.

Il Mulino è da anni un importante laboratorio e crocevia fra tre culture: tecnocratica, cattodemocratica e li­beral- radicale. Insomma è la sintesi culturale del centro-sinistra, una tec­no- sinistra che lascia alle spalle Gramsci e il nazionalpopolare per sposare capitalismo e progressismo, procurandosi pure una benedizione cristiana di tipo dossettiano: Roma­no Prodi fu frutto di quell’ambiente. Traspare nel saggio di Pizzorno,e nel­l’ humus che lo esprime, la preferen­za per il principio di competenza ri­spetto al principio di maggioranza. Oligarchie illuminate contro demo­crazie oscurantiste. Esperti contro Plebi. Visto lo spettacolo recente, l’ipote­s­i potrebbe tentare anche realisti con­servatori e liberali. Ma la domanda sorge: a chi rispondono gli esperti, chi li certifica e li nomina, nel nome di cosa governano, chi stabilisce la scala di priorità delle loro scelte? Le aziende di riferimento o di provenien­za che badano ai loro interessi? Le agenzie di rating?

Le università in cri­si, dominate da mafie demeritocrati­che e nepotiste? Dall’altra parte, i par­titi sono discreditati e incapaci, rac­colgono appena il 4 per cento della fi­ducia dei cittadini, sono corrotti e av­vitati su se stessi. Siamo in effetti tra la brace dei tecnici-esperti e la padel­la dei partiti- corrotti. Due caste domi­nanti, non dirigenti. Sappiamo bene del resto che la so­vranità popolare è soprattutto un mi­to e il voto è soprattutto un rito, maga­ri necessario ma certo non sufficien­te a fondare un buon governo, una vera osmosi tra eletti ed eletto­ri. Non esistono governi delle mol­titudini: le buone democrazie sono governi di pochi nell’interesse di molti, le cattive sono governi di pochi nell’inte­resse di pochi. Sul piano dei principi, il buon governo di un Pa­ese, non mi stan­cherò di ripeter­lo, nasce da un buon equilibrio fra tre fattori: l’esperienza, la competenza e la maggioranza;os­sia l’esempio del­la storia e gli usi della tradizione, il ruolo e il giudi­zio degli esperti, il consenso popo­lare espresso per via democratica. Ma sul piano dei fatti come rea­lizzarlo?

Penso a un’inevitabile doppia via: da un verso l’elezione diretta di chi go­verna una città, una nazione (e perfino l’Unione europea), che re­s ponsabilizza chi comanda, tra­valica i partiti, fonda leadership decisioniste. Dal­l’altra la formazione e la selezione di élite qualificate in appositi laborato­ri, scuole, istituti, fondazioni, a cui se­gue tirocinio e pratica nelle pubbli­che amministrazioni. Decisori politi­ci eletti dal popolo ma circondati da aristocrazie selezionate dagli studi e sul campo che costituisconol’ossatu­ra dello Stato, la continuità e la com­petenza. Partecipazione popolare in basso, decisione in alto, selezione e competenza nel mezzo. Facile a dir­si... Se la democrazia non funziona, non si può chiedere all’economia o al­la tecnica di sostituirla, non si posso­no negare gli interessi generali, le co­muni priorità e i valori.

Ma se i parla­menti non funzionano, non si può pensare a una

scorciatoia plebiscita­ria e populista per evitare la deriva oli­garchica. La via da percorrere, ardua ma inevitabile, è quella di una demo­crazia comunitaria, selettiva e deci­sionista. Il compito gigantesco dei no­stri anni.

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