Colleziona draghi, il 47enne catalano Carlos Ruiz Zafón. Oggi ne porta sulla maglietta uno d’argento, un po’ kitsch, appuntato sul petto come una medaglia al valore. Esclama con orgoglio: «Sono io, il drago» e con un piccolo ruggito sfodera artigli virtuali. Il mercato editoriale lo considera davvero un drago: è tradotto in 40 lingue e ogni suo romanzo va a segno in classifica, dall’esordio con L’ombra del vento, ormai dieci anni fa, fino all’ultimo, cui è dedicato il tour italiano, Il prigioniero del cielo, uscito da pochi giorni in Italia (Mondadori, pagg. 350, euro 21, traduzione di Bruno Arpaia). È il terzo della quadrilogia prevista del Cimitero dei Libri Dimenticati, una saga per cui si sono verificati fenomeni alla Harry Potter: pagine di commenti su Facebook, attesa spasmodica dei fan, osanna e delusioni adolescenziali.
I lettori sono in delirio: li ha fatti aspettare tre anni per questo nuovo episodio e ne ha promessi almeno altri tre di attesa per l’ultimo. Ma sarà l’ultimo?
«Lo sarà, ve lo assicuro. Anche perché quella era l’idea originale. Nei miei romanzi gli archi temporali si possono tirare un po’ in lungo, ma non troppo. Non sfornerò di certo sette volumi».
Sarà. Ma i librai Sempere e i loro fantasmi, lo scrittore David Martin e gli altri personaggi di quella Barcellona sospesa amata da milioni di fan non le hanno preso la mano?
«Il rischio di farsi trascinare c’è. Ma il bello dei quattro libri che ho progettato è che sono quattro porte diverse per entrare in storie diverse, anche se collegate. E aspettatevi un Gran Finale».
Parte del fascino di questa saga sta anche nel considerare il libro come un oggetto fisico che racchiude misteri. Quanto di questa poesia si perderà con gli ebook?
«Il supporto con cui distribuiamo l’arte non è importante. Io ascolto sia Bill Evans che Haydn, ma non li identifico con un pezzo di plastica o un file mp3. Chissà che direbbe chi ha girato Lawrence d’Arabia per il grande schermo del fatto che oggi i ragazzini lo vedano sull’iPhone. Nel caso dei libri, per me hanno già trovato da secoli la miglior tecnologia distributiva: la carta».
Sarà vero per il mondo reale. Ma nelle sue storie?
«Il mio è un romanzo che parla di lingua, narrazione di storie, librai, ambientato negli anni Sessanta e Settanta, in un mondo di sogno, una Spagna e un’Europa che non sono nemmeno quelle reali. Sarebbe come mettere un televisore al plasma in un castello medievale. E certo una serie sul “Cimitero Digitale dei Dati” sarebbe meno romantica. Ma in fondo, perché no?».
Lei vive a Los Angeles da oltre 15 anni. Negli Stati Uniti l’editoria è stata già trasformata dal digitale.
«Stati Uniti ed Europa sono sempre più divergenti, soprattutto per la percezione della bellezza, di cinema, tv, libri. Negli anni Novanta c’erano più affinità. Ma poi l’America ha “aziendalizzato” la cultura in sancta sanctorum che detengono interessi e sensibilità troppo diverse da quelle europee. Non so spiegarle perché, ma questo mi fa pensare che l’unico vero mercato possibile per l’editoria e la letteratura in futuro sia l’Europa Occidentale. Quando torno qui, percepisco una unità culturale».
Spulciando i commenti dei suoi lettori sui social network, si scopre che la curiosità è una sola: quanto c’è di vero e quanto di soprannaturale nei suoi romanzi?
«È la solita, eterna domanda: che cosa è reale e che cosa non lo è. Prima, i generi non esistevano e maestri come Shakespeare e Dickens mescolavano tutti gli elementi per catturare il lettore. Poi, chissà perché, sono nate le etichette: crime stories, giallo, fantasy, realismo. E persino le sottobranche: iperrealismo, realismo sociale... Ma un vero scrittore usa tutto. Perché tutte le storie, anche le più reali, sono piene di fumo e di specchi e c’è sempre qualcuno dentro che sta su quel palcoscenico che è la mente del lettore».
Ci sveli almeno se la serie finirà con il prevalere dell’aldilà o dell’al di qua.
«Prenda Il gioco dell’angelo: per il lettore era la possibilità fantastica, gotica, di fare un viaggio nella pazzia di un giovane, un invito a completare la storia seguendo un demone, un gioco tra scrittore e lettore. Nell’Ombra del vento il viso della madre sembrava un particolare, poi diventa il cuore della storia.
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