Quando cinque anni fa, a pochi mesi dalla sua morte, cominciò a venir fuori che Ryszard Kapuscinski aveva collaborato con i servizi segreti della Polonia comunista, andò in scena la solita commedia dell'indignazione. Lasciamo da parte quella dei suoi detrattori, che qui ci interessa poco, ma la difesa degli amici e ammiratori aveva qualcosa di surreale. Caccia alle streghe di un paranoico governo di destra, vendetta di gente fallita, offesa alla memoria di un grande scrittore, il moralismo pro-Kapuscinski era fatto della stessa moneta di quello dei suoi accusatori. Nemmeno a loro interessava la verità, ma la propaganda. Nell'ultimo decennio del XX secolo era venuta giù l'intera impalcatura politica e ideologica dell'Est Europa e il post-comunismo che ne aveva preso il posto si era riciclato mentalmente in una simil liberal-democrazia per la quale ciò che c'era stato prima sembrava non essere mai esistito. Ne derivava una vulgata intellettuale per la quale, tranne rari e conclamati casi politici, l'idea era che si fosse stati tutti resistenti e dissidenti, eterodossi e mai collaborazionisti. C'era stato sì un regime, ma si era sostenuto da solo...
Ora, nel caso di Kapuscinski, ciò aveva elementi paradossali. Ryszard era nato nel 1932 e diciottenne, nel 1950, quando Stalin era ancora vivo e la Polonia era stalinista, già scriveva per Sztandar Mlodych gli articoli tipici di un giovane comunista entusiasta che di lì a due anni avrebbe chiesto l'iscrizione al partito. Nel '56, quando ne ha 24, il giornale dove ha esordito lo manda in India, a 30 è il corrispondente dall'Africa della Pap, l'agenzia di stampa di Stato. È bravo, ma non è un dissidente o una testa calda né, figuriamoci, un anticomunista. La Pap è la voce del partito, il partito è la voce della Polonia, ed è lo Stato polacco che dà a Kapuscinski i mezzi con cui vivere, impiantare un ufficio di corrispondenza, viaggiare. Se gli chiede, non come contropartita, ma come qualcosa che fa parte dei suoi doveri di «compagno» nei confronti della madrepatria socialista, informazioni extragiornalistiche, può rifiutarsi?
Nella sua monumentale biografia Kapuscinski. A Life (Verso, pagg. 456, sterline 34,95), Artur Domoslawski, suo allievo e amico, dice di no. Il reclutamento è del '65, quando gli uffici africani della Pap si spostano da Nairobi a Lagos, in Nigeria, il nome in codice è «il Poeta», il suo campo d'interesse sono le istituzioni americane in loco, compagnie, organizzazioni, la parola d'ordine dell'agente che lo contatterà è «saluti da Zygmunt» a cui egli dovrà rispondere: «Ha venduto la macchina?». Kapuscinski firma e viene arruolato.
Passano due anni, è il momento di lasciare l'Africa per l'America latina, il maggiore Henryk Sobieski (nome in codice «Benito») lo incontra per fargli sapere che cosa nella nuova destinazione dovrà spiare: giornalisti americani che gravitano intorno alla Cia, cellule Cia e Fbi sul territorio, le attività locali del Sionismo, quelle della Germania federale. Le comunicazioni avverranno per via crittografica attraverso l'ambasciata polacca a Santiago del Cile, il suo nome in codice adesso è «Vera Cruz». «La sua intenzione di lavorare per noi è molto buona» relaziona Benito ai suoi superiori.
Dietro tutto questo armamentario burocratico-spionistico v'è però ben poca sostanza. Dell'Africa gli archivi dei Servizi non conservano nemmeno un'informativa, dei quattro anni latino-americani poche note: fra esse, un centro studi di Caracas, il Cendes, descritto come un'emanazione della Cia e un approfondimento sul suo direttore Pablo Murales, il ritratto-intervista di una studiosa polacca emigrata in Messico dopo essere stata licenziata durante un rigurgito di antisemitismo nel 1968, qualche informazione sulla politica e sulla guerriglia cubana, una nota spese di 30 dollari... Come spiega Sobieski-Benito ai suoi superiori, Kapuscinski è sì volenteroso, ma il suo lavoro di giornalista non gli dà tregua, sta anche scrivendo un libro sul «compagno Che», promette che una volta più libero si renderà utile. Nel '72, i Servizi archiviano il tutto, il che vuol dire che lasciano perdere. Nel riportare il caso alle sue reali dimensioni, Domoslawski inserisce un elemento geopolitico interessante: per la Polonia dell'epoca, le priorità spionistiche erano le nazioni occidentali, Stati Uniti e Germania federale in primis. Lì, ai corrispondenti veniva chiesto un coinvolgimento attivo. Per quelli del Terzo Mondo, rimaneva il principio, come dire, di sudditanza rispetto ai valori del partito, ma il loro ruolo e la loro importanza restavano marginali.
Torniamo da dove siamo partiti. Scrive Domoslavski: «Kapuscinski era un comunista, uno che credeva nella sinistra. Con il passare del tempo ebbe meno fede, ma riteneva che, a dispetto delle sue mancanze, il socialismo fosse un sistema migliore del capitalismo. Aveva il diritto di ritenere una buona azione il suo passare al proprio servizio segreto informazioni su operazioni sinistre della Cia e i suoi agenti e lo scrivere qualche analisi politica, in ogni caso non un qualcosa di riprovevole». Qui però si inserisce un altro punto, che ci accontentiamo di segnalare, perché ci porterebbe troppo lontano. Fare la spia non è un altro mestiere dal fare il giornalista? Kapuscinski non credeva nell'obiettività, «era uno che vedeva il mondo in bianco e nero» scrive Domoslawski. Solo che il mondo che lui aveva difeso e in cui aveva creduto, a metà anni '80 ha ormai troppe crepe e appoggiarvisi con forza vuol dire franare con esso.
Non è un caso che dalla versione americana di Shah of Shahs, uscita in quegli anni, egli elimini tutti i passaggi del ruolo chiave della Cia nel colpo di Stato che portò alla rimozione di Mossadeq. Stava costruendo una carriera da reporter della libertà, appassionato, ma leale e indipendente, e la sua credibilità sarebbe stata messa in discussione se la Cia, per ritorsione, avesse messo in giro la voce che era a libro paga dell'intelligence comunista. Era meglio non rischiare...
Allo steso modo si spiegano altri aggiustamenti autobiografici: il far cominciare la sua carriera giornalistica dopo il disgelo staliniano e non prima, il fare del padre uno scampato alle fosse di Katyn, vergogna comunista e antipolacca, il non dire mai una parola su che cosa per lui personalmente avesse significato l'Urss, il comunismo, idee e realtà in cui aveva a lungo creduto. Intento a erigere la propria leggenda, Kapuscinski se ne trovò imprigionato.
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