Coronavirus

L’arcangelo Michele ci aiuti a decapitare il finto secolo breve

Siamo stati schiacciati dal "carpe diem" Liberiamocene a colpi di grandi croci

L’arcangelo Michele ci aiuti a decapitare il finto secolo breve

È facile notare che il colore nero unisce il “Fungo nero” (Bomba H) al “Cigno nero”: questa specie di nuova arma invisibile di distruzione di massa che è il Covid-19. Mio cugino esorcista, don Paolo, mi ricordava della processione di papa Gregorio Magno, nel 500, al tempo della peste a Roma. Di quando apparve l’Arcangelo Michele (mio Mito) saltare con la spada sguainata in cima alla tomba di Adriano (da allora Castel Sant’Angelo; adesso si osserva Michele riporre la spada nel fodero). L’unico Angelo a cui è permessso guardare negli occhi Dio, con la sua spada fermò la peste e, saltando per raggiungere la punta della Mole Adriana, impresse sulla pietra l’orma del piede. Io vorrei dormirci dentro, perché quel calco è il ventre più protettivo e salvifico che esista. Eppure non temo il Coronavirus. Questo tempo di reclusione, da atleti scemi saldati ai “blocchi di partenza”, lo vivo nel corpo e nella conta delle ore e dei giorni come sempre. Vengo da un combattimento emotivo ad altissimo livello, avendo scritto un romanzo dove il protagonista è pronto a uccidere e morire e se la intende con un criminale no feroce, di più: Laudovino De Sanctis. Libro estremo. Dove muore un mondo e ne nasce uno nuovo, di luce. Ne sono uscito proprio quando lo sciame del virus ha provato a papparsi i cinesi. Ho sentito che non si trattava di zanzare o api. C’era altro. Ma ho controllato la mia glicemia ed era alta, pure l’insulina. Troppi zuccheri. Sono un ipocondriaco anomalo anche all’epoca del Corona. Chiamo quindici medici, o vado presso i loro studi (quasi tutti amici), e cerco di sedurli affinché mi dicano quello che voglio sentirmi dire. Così mentre cercavo di staccarmi di dosso Lallo Lo Zoppo mi sono messo a dieta e ho incominciato a mettere pomate e cremine sulla mia ferituzza genitale (prodottamisi da incontro “selvaggio”): Codex, Banival, Kelairon, Gentamicina, Biolastic… Vivo in campagna, a un chilometro dal’antica via Appia, sull’ultimo labbruzzo dei colli Albani. Faccio sempre le stesse cose. Eppure è accaduto un fatto eccezionale nella mia testa. Premetto che disprezzo la filosofia del Carpe Diem (cogli l’attimo). Amo solo le scarpe di Carpe Diem. Io non so cosa è il presente. Oscillo tra passato e futuro. Il presente era un laboratorio che conteneva «azioni pure e audaci» e molte fantasticherie, cioè sogni che per lo più ho trasformato in realtà. Del resto anche lo psicoanalista Jung (l’unico che mi piace leggere) ha lasciato in dote lezioni contraddittorie ai suoi psico: il passato è tutto ma va abbandonato per il futuro. In mezzo cosa c’è? La seduta psicoanalitica. Insomma per me il presente era un laboratorio creativo o semplicemente stare a letto fino alle 18, e però progettare e rimpiangere: comprare un palazzo abbandonato, sessanta metri quadri al Quadraro a Roma o un bugigattolo alla Bovisa a Milano. Poi, cazzo, ho perduto il dipintino di De Chirico. E comunque, mi dicevo, sono pronto al monachesimo. Poi che scemo, mi dicevo ancora, ho speso circa centotrentamila euro in giubbini di pelle e ho comperato dieci supercar in quindici anni. Però, di sopra, parlavo che è cambiato molto il mio concetto di “presente”, pur facendo la stessa vita reclusa e notturna (passeggiavo di notte; di notte andavo al mare). Siccome l’Italia (oh quanto ti ho amata!, da prima che ogni scemo si appropriasse della parola Patria) si è arrestata nel “presente”, facendo una specie di calca che soffoca spazio e tempo, anche io ho ridotto l’orrido presente in futuro. Ecco, oramai oscillo tra passato e presente. Per colpa del Covid che fa ressa, io non posso essere libero di mente per spiccare il volo verso il futuro. Cioè saltare dal passato al futuro. Sento l’assillo, piango per l’adorata Milano, l’amatissima Bergamo, Como… Mi strappo la pelle per i morti. L’ho pure scritto su Fb: «I bollettini dei morti quotidiani, mi fanno tornare all’Editto di Saint-Cloud. Tumulare i cadaveri per lo più nei fopponi senza pensare a “una pietra” che rivelasse il nome del sepolto. Quella legge napoleonica promulgata in Italia nel 1805, stumulando i corpi dalle chiese e dall’interno delle città e attorno alla cinta muraria, allontanandoveli, proclama di fatto la nascita dei cimiteri. È inutile ricordare che la legge francese fornì il pretesto al Foscolo per scrivere Dei Sepolcri: canto civile, umano e “celeste”. Ora va detto che ogni uomo morto che crede nella sepoltura, ha diritto a “un sasso”, dunque una tomba affinché la sua memoria non venga cancellata. Questa guerra perversa ci ricorda che i cimiteri italiani versano in condizioni peggiori delle periferie. Noi non valiamo solo da vivi. Valiamo e esistiamo anche da morti». Prima del virus, in tivvù seguivo le televendite. Soprattutto di dipinti e gioielli. Ora per fortuna ho rivisto Kevin Costner in una serie che si intitola Yellostone: sceneggiatura scarna; accenni di movimenti. Mentre la ragazzina che è mia allieva e che vive da me (la chiamo Bambolina Rock, forse parafrasando Alberto Camerini), mi disegna a pezzi: mi ritrovo gli occhi su una carta, le mani su quella igienica, il naso con il neo da sradicare. Poi il libro di Giuseppe Scaraffia (L’altra metà di Parigi) lo trovo elegante e carico di vita quanto una giostra di Avignone. Giuseppe mi costringe a tornare sulla Rive Droite, a cavallo tra le due guerre. Descrive Lacan come un mostriciattolo con le orecchie a sventola; Drieu nel suo appartamentino grigio, con divano grigio, con la carta da parati grigia con fiori rossi e fiori rossi vivi sul tavolo. Celine è vestito di rosa. Sono tutti bellissimi e folli. Molti avevevano poco più dei miei anni quando andai la prima volta a Parigi. Il Marais era remoto, piazza della Bastiglia: ultimo avamposto. Scaraffia mi ha fatto tornare sui gradini del Sacre Coeur. Allora la città mi parve di fango e paglia e il cielo un oceano vastissimo e spesso ma meno blu di quello di Milano. Da Jean Genet… sono approdato alla rilettura de La pioggia nel pineto: il Canto più lisergico (Lsd) della letteratura italiana. Il Canto senza presente (come piace a me), fatto di corpi vegetali, anfibi, sonori, sensuali che oscillano tra passato e futuro. Di solito, in tempo di pace, fuori da questa che ho chiamato “guerra perversa”, rifletto che forse è meglio comprare delle tombe invece che appartamenti. È difficilissimo. La speculazione edilizia anche nei camposanti non ha trovato impedimenti. Allora ho pensato, parlandone anche con il mio cugino esorcista, che bisognerebbe mettere in ogni piazza d’Italia una croce. Rialzare le croci. Usarle come la spade di san Michele Arcangelo. Invece con l’artista Felice Levini (intanto comunque in asta a porte chiuse ho opzionato un’opera di Lim di alluminio avendo per bassorilievo una pistola Beretta) abbiamo pensato (mia antichissima idea) di creare una installazione: una gigantesca ghigliottina che sta a significare che il famoso secolo «breve», cioè il novecento, pare si sia allungato a dismisura incistendosi dentro il terzo di millennio. Bisogna tagliarlo. Io scriverò il poema. Se lo tagliamo avremo finalmente il Futuro e scioglieremo nell’acido il Carpe Diem. Che l’Arcangelo Michele protegga l’Italia (se la nostra penisola avesse ancora Fiume e Nizza formerebbero due ali. Pensateci!) giacché l’Italia è fatta a sua immagine. Bergamo ti amo. Ti ho sempre amata anche quando i falsi progressisti mi mandare per ben due volte in finale al premio di narrativa che aveva il tuo nome, senza mai farmi vincere. Ma io sto con la città di cui scrissi: «A Bergamo ho visto la pietra nera arcigna/come una ridda di gonfaloni e stendardi…».

Anche per te sono pronto a dare il sangue.

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