L’Occidente è finito ma non se ne andrà in pace

Nel nuovo saggio di Michel Onfray, "Décadence", il declino inevitabile di una società assediata dall’islam radicale e dal proprio nichilismo

L’Occidente è finito ma non se ne andrà in pace

Michel Onfray è un pensatore francese noto anche in Italia (dove pubblicano tutti i suoi libri le case editrici Fazi e Ponte alle Grazie) come anarchico, ateo e edonista. Esco ora dalla lettura della sua ultima opera (Décadence, Flammarion, pagg. 651, € 22,90) e devo dire che ho trovato le argomentazioni di Onfray sulla decadenza dell’Occidente molto affascinanti, coinvolgenti, coraggiose e da festeggiare nella loro verve conto ogni correttezza politica e ogni vacuo buonismo.

Onfray ama il paradosso, che coltiva con uno stile spesso immaginoso e barocco, ed è davvero paradossale che, da anarchico, esprima una concezione della storia così cruda: le civiltà vengono create dalla forza e dalla fede, dal «vigore». Nessuna civiltà è mai nata dai pacifisti, dai santi, dai non violenti, dai «bravi ragazzi». La storia insegna che «non si vince con la verità più vera o la giustizia più giusta, ma con la forza più forte ». La forza che vince chiama «bene» se stessa, il male è chi ha perso, il più debole. Concezione che il nostro Manzoni, prima di passare a una visione provvidenzialistica della storia, esprime in versi memorabili dell’Adelchi. Paradossale è anche che, da ateo, Onfray veda nelle religioni i fattori più importanti nella fondazione di una civiltà. Per lui, non è una civiltà che produce una religione, ma una religione che produce una civiltà. Ed è paradossale che, da edonista, non sia un allegro fautore del neoliberalismo e consumismo imperante, ma che anzi lo avversi con la stessa foga con cui avversa il nazifascismo e il comunismo.

Onfray non crede nelle tesi esposte da Kojève o Fukuyama sulla fine della storia. La storia continua a muoversi, anche se su un piano inclinato di crisi e decadenza. Ogni movimento delle civiltà è distruzione di qualcosa che veniva prima. Il cristianesimo, guidato non dal mite Cristo dei Vangeli ma dalla teologia politica armata di Paolo di Tarso, distrugge il politeismo pagano e raggiunge il suo apogeo inventando il concetto di «guerra giusta» e di «malicidio »: quando si uccide, non si uccidono uomini che ci sono nemici, ma il male in sé. L’umanesimo, con la riscoperta dell’antico e la ricomparsa del De rerum natura di Lucrezio inizia a mettere in crisi i fondamenti del cristianesimo. E poi, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, la rivoluzione bolscevica e il Maggio 68 proseguono l’opera di decristianizzazione dell’Occidente, che secondo Onfray il Concilio Vaticano II non combatte, ma anzi favorisce decostruendo il sacro e portando il trascendente sulla terra, anche con la nuova liturgia della Messa. Onfray, che trova limitata la storiografia marxista nel suo ideologismo, vede la Rivoluzione Francese come frutto anche di sentimenti umani, odio, risentimento, invidia, rancore, malvagità, che esemplifica in magistrali ritratti esistenziali, e del tutto antieroici, di Marat, Saint-Just, Robespierre, Desmoulins, Mirabeau. Vede in Rousseau, che affida i suoi cinque figli all’assistenza pubblica e impiega le 600 pagine dell’Emilio per insegnare agli altri come educare i propri, un lontano progenitore dei totalitarismi, con il suo anelito verso l’uomo nuovo e la sua idealizzazione delle virtù di Sparta, poi riprese sia dal nazifascismo sia dal comunismo, cui Onfray non fa nessuno sconto per i 20 milioni di morti nei gulag e i 100 milioni di vittime, frutto dell’opera non soltanto di Stalin, ma anche di Lenin e Trotski.

Il nazismo e il fascismo gli appaiono come reazione cristiana al comunismo ateo. In fondo, i totalitarismi novecenteschi sarebbero stati molto simili tra loro non fosse per questa decisiva discriminante religiosa. Hitler stesso non è un pagano come Rosenberg, l’autore del Mito del XX secolo, e il suo Mein Kampf non è mai messo all’Indice dalla Chiesa. La democrazia liberale vince, e con essa l’Occidente si presenta consumista e decristianizzato. Di fronte ha, come nel 711, conquista araba della Spagna, come nel 1683, assedio turco di Vienna, un Islam che, dalla rivoluzione iraniana in poi, crede con un vigore nuovo nel proprio sogno di Califfato, di dominio del mondo. A tutto ciò l’Occidente oppone il suo nichilismo. Quando meno ce lo aspetteremmo, Onfray lo incarna simbolicamente nelle «merde d’artista» di un altro Manzoni, Piero, che nel 1961 porta il ready made di Duchamps alla sua estrema conseguenza. E poi nel Maggio 68, di cui elenca gli slogan contro Dio, Cristo, la trascendenza, il lavoro, la patria, la borghesia, il parlamentarismo, la proprietà, la memoria, la cultura, l’arte, che negano tutto senza proporre niente, tanto che un legittimo desiderio di uguaglianza diventa presto una dittatura dell’egualitarismo.

E infine lo incarna nello strutturalismo, di Foucault, di Barthes, che diventa una macchina potentissima di antiumanesimo, annunciando la morte dell’uomo, della storia, della filosofia, del reale, e anche dell’autore (che siano autori a affermarlo sembra una inezia…). Non rimane che l’economia. L’Occidente è «a vendre». Il libro di Onfray si ferma sulle soglie dell’apocalisse. È questo deserto, questo vuoto, questo nulla che opponiamo noi occidentali a chi vuole distruggerci?

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