«Macbeth» è un ex soldato con la sindrome del reduce

Justin Kurzel si misura con i mostri sacri Welles, Kurosawa e Polanski: «Dietro le scene di battaglia c'è un'idea di western ambientato nel Medioevo»

«Macbeth» è un ex soldato con la sindrome del reduce

da Cannes

Il trauma del soldato. «L'orrore, l'orrore» del Cuore di tenebra conradiano, le allucinazioni dei reduci dei due confitti mondiali, dell'Indocina e della Corea, del Vietnam, dell'Afghanistan, dell'Iraq e della Serbia, il ritorno a casa e il sentirsi sempre in guerra, le notti popolate di incubi e di sangue che ti svegliano all'alba madido di sudore e pieno di paura, l'alcool e le droghe per stordirsi e per dimenticare, la confusione mentale che altera piani e prospettive, fino a che un bel giorno, in tempo di pace, riprendi la tua arma di guerra, l'unica cosa che non ti ha mai abbandonato... E se Macbeth fosse questo, non l'ambizione, ma l'assenza di un centro, la storia di una perdita, il vuoto che ti inghiotte?

Dopo Orson Welles nel 1946, Akira Kurosawa nel 1957 e Roman Polanski nel 1971, per citare soltanto i tre adattamenti cinematografici più famosi, il capolavoro di Shakespeare trova nell'australiano Justin Kurzel l'occasione per approdare in concorso a Cannes. Il cast è stellare nei suoi due protagonisti, la già premio Oscar Marion Cotillard, il divo del momento Michael Fassbender. I dialoghi sono quelli originali, perché non c'è miglior sceneggiatore del Bardo per eccellenza, ma il regista li immerge nell'inverno scozzese e consegna alle scene di battaglia il compito di fare da contrappunto. I colori sono scuri, riscattati dal rosso del sangue e dei tramonti, degli incendi e delle pire funerarie, dei roghi «purificatori». «È un paesaggio gelido, che definisce il testo» spiega Kurzel. «Un paesaggio viscerale, che evoca le streghe, che rende possibile il passaggio dalla realtà allo spazio onirico. Macbeth è un soldato, un uomo di fisicità, proprio di un'epoca in cui il combattimento era all'arma bianca, un urtarsi di corpi, uno squartamento di membra... Una vita che è un susseguirsi di scontri, senza nemmeno il tempo per seppellire i propri figli. Il Novecento ha permesso una casistica medico-psichiatrica molto ampia sulle sindromi post belliche». Non ci vuole molto per capire con che cosa dovessero convivere i reduci del XVIII secolo...

Di questa fisicità, Michael Fassbender dà ampia prova, ma è la magia del testo shakespeariano a permettergli di disegnare a fianco dell'uomo d'armi coraggioso il profilo psicologico di un essere ferito a morte, abitato dai rimorsi, convinto che la storia non sia altro che il racconto di un idiota pieno di vino e di furore... «Sì, non è un antieroe, né soltanto un uomo roso dall'ambizione. È qualcosa di più, perché l'ambizione sappiamo cos'è, l'abbiamo provata tutti, ne conosciamo la pericolosità. Qui c'è la paura di ritrovarsi solo. Una moglie da cui è stato più distante che presente, il sapere di non lasciare eredi, il sapere che invece il fido Banquo li ha e che saranno re... La lingua, il ritmo della lingua di Shakespeare è qualcosa di immenso e che andava reso in modo intimo, evitando cioè l'approccio teatrale. È come un soliloquio, un sorta di mormorio».

Lady Macbeth è Marion Cotillard, al quarto anno consecutivo qui al Festival, al suo primo incontro con Shakespeare. «Sono la moglie di un guerriero carismatico della Scozia medievale, un uomo logorato e con il quale cerco di riannodare un legame che sangue e lutti hanno sfibrato. Penso che il potere possa essere il muro protettivo che lo salvi e invece contribuisco alla sua distruzione. È una figura drammatica, la più drammatica che abbia interpretato, lucida e insieme spaventata dalla propria lucidità. Si accorge troppo tardi dello squilibrio di cui è la causa».

Per Justin Kurzel si tratta della seconda volta a Cannes. La prima era stata cinque anni fa, alla «Semaine de la Critique», con The Snowtown Murders , la storia di un serial killer. «Ho letto che ogni quattro ore c'è una recita del Macbeth in giro per il mondo, il che fa capire l'attualità dell'opera di Shakespeare. Ho cercato di non farmi influenzare dagli adattamenti di Welles e di Polanski, che infatti non ho visto.

Se volete, dietro i campi lunghi e le scene di battaglia c'è un'idea di western ambientato nel Medioevo. Sono nato in Australia, conosco la forza e l'immensità che può avere un paesaggio. La Scozia, come ho già accennato, è una cornice perfetta per esaltare un dramma del genere».

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