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Majnoni, l'antifascista che scoprì il bluff del Partito d'azione

Il braccio destro "liberale" di Raffaele Mattioli nel '43-45 vide tutta la mediocrità e l'arrivismo di un gruppo politico che mirava solo al potere

Majnoni, l'antifascista che scoprì il bluff del Partito d'azione

Gli austeri saloni di palazzo Colonna dove aveva sede l'ufficio romano di rappresentanza della Comit, avevano - come ha raccontato l'«aristocratica ribelle» Giuliana Benzoni, anima di una cospirazione antifascista declinata da intellettuali, banchieri e nobildonne nel crepuscolo del regime - una «anonima grandiosità», emanavano «odore di legni antichi» e le loro porte, «ad un leggero tocco, si schiudevano come misteriosi regni». Costituivano l'ambientazione ideale per ospitare incontri riservati con un vago sentore di complottismo. La direzione di quell'ufficio (creato nel 1920 come braccio operativo nella capitale per gestire i rapporti con il governo e la politica) era stata affidata, a partire dal 1935, da Raffaele Mattioli, allora amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, a un uomo di fiducia, Massimiliano Majnoni d'Intignano. Questi, allora poco più che quarantenne (era nato nel 1894) era un aristocratico lombardo, cattolico-liberale, il cui padre, architetto della Real Casa, era stato amico di Umberto I e il cui cognato, Paolo Guicciardini, era gentiluomo di corte. L'estrazione familiare e i contatti col mondo ecclesiastico, ma anche una esperienza «diplomatica» nella missione militare italiana alla conferenza per la pace di Versailles, oltre alle doti organizzative e alle già accertate capacità manageriali, lo avevano fatto apparire a Mattioli il personaggio più adatto per guidare la rappresentanza romana.

Soprattutto a partire dall'inizio degli anni Quaranta, in ambienti e salotti romani, frequentati da nobili irrequieti e intellettuali insoddisfatti, aveva cominciato a diffondersi un antifascismo che si traduceva, più che in spirito di fronda, in vocazione cospirativa. La marchesa Benzoni era al centro di questo universo. Fu lei che - amica di Maria José di Savoia e animatrice di un gruppo «femminil-vario-antifascista» - stabilì un contatto fra la Principessa di Piemonte e Mattioli, col tramite di Majnoni, per spingere il banchiere a imbarcarsi in una velleitaria e segreta trattativa di pace con gli alleati in territorio portoghese. Legato all'«aristocratica ribelle» da antica amicizia, Majnoni frequentava anche altri salotti, a cominciare da quello delle famiglie Albertini e Carandini, dove si ritrovavano numerosi antifascisti, da Leone Cattani a Novello Papafava. Di queste frequentazioni ha lasciato traccia in un diario nel quale, dal 1908 e fino al 1957, annotava con maniacale precisione fatti e incontri significativi.

Di quell'immenso materiale diaristico, depositato presso l'Archivio Storico Intesa San Paolo, sono stati pubblicati ora col titolo Sopravvivere alle rovine. Diario privato di un banchiere (Aragno, pagg. 682, euro 60) i quaderni relativi al periodo che va dal 25 luglio 1943 al giugno 1945. Si tratta di una testimonianza importante per la storia economica ma anche politica: una testimonianza che, priva di reticenze e ricca di giudizi al vetriolo, consente di capire meglio gli avvenimenti e il ruolo giocato dal mondo finanziario e intellettuale nella caduta del regime e nella fase immediatamente successiva.
La Comit divenne il centro dell'antifascismo. Mattioli, trasferitosi, dopo il 25 luglio, da Milano a Roma, fece dei saloni di Palazzo Colonna il punto di riferimento di contatti che coinvolgevano azionisti, cattolici, liberali, monarchici, socialisti e persino comunisti. Del banchiere, «regolatore di tutte le opposizioni», Majnoni traccia un ritratto efficace: «Mattioli ha veramente una grandissima forza, quella di saper incanalare le attività altrui verso uno scopo da lui desiderato. Questi diversi rivoli sfociano poi in fiumi vari. Poi lui ripiglia i fiumi e li fa ancora confluire in un fiume più grande. Senza apparente sforzo, e forse anche senza uno scopo preventivamente determinato. Ma è poi assistito da un istinto direi quasi riassuntivo, per cui tutte queste forze, che sembrano indipendenti e contrastanti, confluiscono verso uno scopo, che gli vien rivelato di volta in volta. Perché è agilissimo e pronto ad applicare tutte queste forze alle circostanze, secondo che queste si vengono manifestando. L'importante è di avere queste grandi riserve, nei campi più disparati, a sua disposizione».

Per quanto anch'egli antifascista, di un antifascismo liberale e conservatore, e per quanto estimatore del banchiere umanista, Majnoni non ne apprezzava l'appoggio al Partito d'Azione, che faceva dire in giro che il PdA era «il partito degli azionisti della Comit». A lui gli azionisti sembravano «gente buffa e in fondo perniciosa e poco seria». Le frecciate contro di loro sono impietose: «son gente ambiziosa e senza scrupoli, bugiardi e violenti», una «squadra di impotenti rivoluzionari», di «eterni congiurati da commedia che, nell'ombra, pestan l'acqua nel mortaio, con truci sguardi e passi circospetti»: personaggi, raccolti attorno al giornale ufficiale del PdA, L'Italia libera, impegnati in una «corsa al cadreghino, sfacciata e, malgrado tutto antiquata», con poche eccezioni «uomini gonfiati, ambiziosi, o partigiani» e soprattutto «plebei, nel senso piccolo borghese della parola». Soprattutto infastidivano Majnoni l'arrivismo e la spregiudicatezza di intellettuali e politici che si preparavano al «futuro assalto alla dirigenza»: «mi pare strano che mentre l'Italia sta affondando questi giovani si occupino di posti. Si vede che nelle nuove generazioni l'Italia è già bacata. Ed allora non c'è davvero più speranza».
Il 7 agosto 1943 egli annotava che Ugo La Malfa e Enrico Cuccia erano «nerissimi» per aver perso «il treno ministeriale». Per La Malfa aveva «simpatia ed affetto» ma non condivideva «nessuna delle sue idee» né le «invettive verbali». Sul «quadrumvirato degli intellettuali» vicini a Mattioli - Carlo Antoni, Guido De Ruggiero, Umberto Morra di Lavriano, Piero Pancrazi - poi diventato una «pentarchia» con Luigi Salvatorelli, non si faceva illusioni. Pochi si salvano dal giudizio affilato: il filosofo Guido Calogero è «un uomo colto, maestro e didatta; ma dal poco cervello e un poco pieno di sé»; lo storico della filosofia Guido De Ruggiero è «debole e pieno di vanità», l'archeologo Umberto Zanotti Bianco «sembra una zitella inglese, è amato dalle donne, tra le quali dicono passi incontaminato». Solo per lo storico Luigi Salvatorelli, pur nel dissenso, ha parole di stima: «è un uomo con delle idee, e con una soda conoscenza dei fatti relativamente agli ultimi cento anni. Di tutto il Partito d'Azione è il solo che rispetti».

È davvero un po' poco per un partito che, per usare le parole di Gaetano Baldacci, si crogiolava in «una illusione democratica».

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