Cultura e Spettacoli

La malinconia di Starobinski unì scienza e letteratura

È morto a 99 anni il medico e critico, che indagò a tutto tondo il rapporto tra l'individuo e il suo tempo

La malinconia di Starobinski unì scienza e letteratura

Letteratura e Medicina. Umanesimo e Scienza. Il legame è, per così dire, una patologia: la malinconia. Una «malattia» che può essere scovata attraverso l'ermeneutica di un testo, e quindi attraverso lo stile, la struttura, il linguaggio, oppure svelata nello studio del profilo psicologico di un essere umano. Jean Starobinski, nato a Ginevra nel 1920 da una famiglia ebrea polacca (diceva che se non avesse avuto la fortuna di nascere in Svizzera sarebbe sicuramente morto in qualche campo di concentramento) e morto il 4 marzo scorso all'età di 99 anni, ha attraversato il Novecento, svolgendo, dal 1958 al 1985, la carica di professore onorario di Storia delle idee e di Letteratura francese nell'Università di Ginevra (anche se non fu questa la sola università che si servì della sua sapienza; operò infatti anche al Politecnico federale di Zurigo, al Collège de France di Parigi e nell'Università Johns Hopkins di Baltimora). Da ragazzo si era laureato in Lettere con una tesi dedicata a Rousseau, ma già nel 42 si apprestava ad affrontare lo studio della medicina (la carriera medica verrà abbandonata nel 1958, ma gli studi scientifici non cessarono mai): «Vengo spesso considerato un medico apostata passato alla critica e alla storia letteraria» scrive nel 2012, nella premessa a L'inchiostro della malinconia, che raccoglieva studi pubblicati a partire dal 1960 durati mezzo secolo. «A dire il vero, i miei lavori erano frammisti. L'insegnamento di Storia delle idee che mi venne affidato a Ginevra nel 1958 è proseguito ininterrottamente su argomenti che concernevano la storia della letteratura, della filosofia e della medicina, in particolare della psicopatologia».

Ma occorre ricordare la sua posizione rispetto a questo tema, appunto la malinconia, che lo ha accompagnato per tutta la vita. Il malinconico non era necessariamente un malato di depressione, ma anche un uomo che aveva scelto un modo di stare al mondo, spesso ponendosi come un esiliato della società, avendo così sulla società una particolare visione che modificava la sua stessa esistenza. Il malinconico era poi colui che, proprio da quella condizione, era capace di affinare la sua coscienza; un individuo che dal buio, cioè da un'oscurità, una perdizione esistenziale, sapeva però rinascere a se stesso. A questo assunto Starobinski era arrivato studiando alcune personalità dal mondo antico e, attraversando ogni epoca, era giunto ad analizzarne alcune vissute al principio del Novecento; quindi da Democrito era passato a Montaigne, Rousseau, Baudelaire, arrivando fino a Kafka, notando come in ogni periodo storico il malinconico si rivoltava al secolo in cui viveva cercando e applicando su se stesso forme di opposizione di volta in volta nuove. L'individuo (l'artista, lo scrittore) in relazione al suo tempo era il nodo cruciale della sua ricerca di critico letterario. Possiamo leggere in un suo libro, L'occhio vivente (del 1970): «Non si dimentichi, d'altro canto, che la tolleranza verso l'immaginazione varia secondo gli ambienti, le epoche e le tradizioni. In una parola, vediamo profilarsi un compito critico che non si limiterebbe all'analisi dell'universo immaginato, ma che manterrebbe la forza immaginante nella sua situazione relativa entro il contesto umano in cui essa sorge. In effetti il compito critico, destinato senza dubbio a rimanere sempre incompiuto, consiste nel percepire le opere nella loro autonomia feconda, in modo però da cogliere tutti i rapporti che esse hanno col mondo, con la storia e con l'attività inventiva di un'intera epoca».

Ma si diceva del modo in cui il malinconico si oppone al proprio tempo. Perché il tema del malinconico è strettamente connesso, per Starobinski, a quello della maschera, e a riguardo non si può tacere uno dei suoi studi più celebri, Ritratto dell'artista da saltimbanco (del 1983). Nel momento in cui il malinconico pone sul suo volto una maschera, come difesa o comunque ostacolo e distanza con l'esterno e con l'altro, gli si spalanca però il proprio mondo interiore. Il suo dramma è quello, come diceva Starobinski, di «non poter passare dalla conoscenza all'atto» (come accadeva a Kierkegaard e allo stesso Kafka); insomma, la sua conoscenza non lo mette in movimento, o in relazione con l'esterno, ma lo «pietrifica».


È chiaro, quindi, che la ricerca sulla malinconia per Starobinski fu anche un modo per affrontare ogni campo del sapere, da quello scientifico a quello filosofico e letterario; e se quella ricerca durò per tutta la vita significa che la sua era una scelta morale lucidissima, la stessa che gli faceva ammettere, come abbiamo letto nella citazione, che il compito della critica non poteva che restare incompiuto, perché, aggiungiamo noi (come fosse la lezione ultima che ne abbiamo appreso), l'indagine sull'essere umano resterà pur sempre inesauribile, e proprio per questo è nostro dovere non interrompere la sua e la nostra analisi, che risponde a un'indispensabile necessità di comprensione, di conoscenza.

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