Militante con giudizio La Biennale di Aravena sarà anti-archistar

«N ei prossimi 15 anni, dovremo costruire una città da un milione di abitanti alla settimana, con un budget da 10mila dollari per famiglia. Se non risolveremo quest'equazione, non è che le persone smetteranno di convergere nei centri urbani. Verranno comunque, ma vivranno nei bassifondi e nelle favelas». Capello sale e pepe scarmigliato alla Wolverine, Alejandro Aravena è il nuovo direttore della Biennale di Architettura, voluto fortissimamente da Paolo Baratta, prima della scadenza del proprio mandato presidenziale.

Cileno, classe 1967, Avarena è l'uomo chiamato a costruire per l'edizione 2016 un evento anti-archistar, di profilo basso e sociale, potremmo dire politico, che immaginiamo pendant della kermesse neo/vetero marxista affidata quest'anno al critico nigeriano Okwui Enwezor. Con una differenza sostanziale: se per il pubblico dell'arte contemporanea l'ideologia è solo una delle forme mutanti della grande fumisteria, l'escamotage per giustificare tartinate a bordo yacht, Aravena non è tipo da letture crepuscolari del Capitale . È interessato a questioni sostanziali, che riguardano sovrappopolazione, sostenibilità, erosione del territorio, cambiamenti climatici, con un'attitudine progettuale che guarda alle forme architettoniche come alla possibilità di risolvere problemi nella maniera più naturale possibile, senza calcolare troppo estetica e funzione simbolica degli edifici. La sua Biennale si chiamerà Reporting from the front , titolazione che rimanda al cliché dell'architetto militante. Non bisogna però peccare di cinismo. Se la tentazione è liquidare Aravena come un Bob Geldolf delle archistar, chiamato a lavare le coscienze di un mondo che ha perso il contatto con la realtà, bisogna però riconoscergli, accanto all'aria da Dudamel del mattone, un sano pragmatismo. Non a caso il suo studio, Elemental, vede nel board il presidente di una compagnia petrolifera. Alejandro insomma è uno capace di ribaltare i paradigmi. «Se vuoi scioccare la gente, è per nascondere il fatto che sei irrilevante», spiegò a commento del titolo della Biennale 2008, Architecture Beyond Building , in cui l'olandese Aaron Betsky invitava a pensare a un'architettura liberata dagli edifici. Provocazione che al cileno non piacque. «Dobbiamo tradurre le idee in fatti. Questo è quello che facciamo. Voglio dire, questo è il nostro potere. È il motivo per cui siamo pagati». E i suoi esperimenti di edilizia sociale pubblica non si limitano a ossequiare in maniera epidermica forme e colori delle architetture spontanee. Non è un retore della bellezza dei bassifondi. Lavora anzi al tentativo di canalizzare quella che chiama «la capacità di costruire delle persone», e che alle nostre latitudini definiremmo abusivismo. «Se una famiglia medio borghese ha bisogno di una casa da 80 metri quadri, e lo Stato ha il budget per farne una da 40, non dobbiamo rimpicciolirla. Molto meglio farne metà, lasciando poi che a completare il lavoro sia chi la abita».

L'importante è costruire la struttura, che poi ciascuno riempie e personalizza come crede. «L'autocostruzione è sicura, economica e veloce». Per una Biennale che aveva smarrito la testa tra le nuvole Aravena potrebbe essere uno shock salutare. Che la battaglia abbia inizio...

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