Mister John Carter? È il fratello di Tarzan ma vive su Marte

Mister John Carter? È il fratello di Tarzan ma vive su Marte

È appena arrivato nei cinema John Carter di Marte di Andrew Stanton. E spiegare di cosa si tratta è facilissimo: una specie di Conan il barbaro in salsa marziana, con tanti effettoni speciali e un po’ di salti e piroette alla Matrix. Però va detto che le origini letterarie di questo filmone sono nobili e, trattandosi di fantascienza, anche antiche. Per accorgersene basta andare in libreria e comprare John Carter di Marte (Newton Compton, pagg. 470, euro 6,90), trilogia che raccoglie tre dei molti romanzi fantascientifici a tema marziano scritti da Edgar Rice Burroughs. Sì, l’autore del libro è proprio quel Burroughs (1875-1950) diventato famoso per aver inventato il ciclo di Tarzan. Ma mai questo scrittore inquieto, che in gioventù aveva fatto di tutto, compreso il cow-boy, sarebbe arrivato a raccontare al mondo le avventure del ragazzo che diventò il re delle scimmie, senza John Carter. Nel 1912 infatti la carriera dello scrittore-avventuriero era arrivata a un punto morto e Burroughs stava seriamente meditando sul suicidio. Poi di colpo la folgorazione fantascientifica: riesce a pubblicare a puntate sulla rivista All-Story Magazine il romanzo Sotto le lune di Marte. Il protagonista è un ex ufficiale dell’esercito sudista che finisce teletrasportato su Marte. Il successo è immediato: di romanzi ne seguiranno altri undici, pubblicati sino al 1943. Tant’è che l’oggi quasi dimenticato Carter ha per lungo tempo eguagliato il successo del più longevo Tarzan.
E se il personaggio, spavaldo e muscolare, ha molto in comune con quello ora finito sugli schermi, va detto che - per l’epoca in cui fu scritto - il ciclo marziano ha davvero regalato qualcosa alla fantascienza. Era una delle prime saghe totalmente collocate su un altro pianeta. L’ambientazione, che oggi può far sorridere, si basava sulle speculazione scientifiche dell’astronomo Percival Lawrence Lawell, il quale aveva teorizzato la presenza di canaloni e di acqua sul Pianeta Rosso (per smentirlo ci sono volute le esplorazioni della sonda Mariner). E in più, nonostante la volontà di rivolgersi a un pubblico il più largo possibile e di bocca buona, Burroughs non ha lesinato nella creazione fantastica. Se la sua scrittura è quasi sempre di grana grossa e densa di effettacci (tutto su Marte è «enorme», «meraviglioso», «incredibile») la capacità inventiva è davvero notevole. Ci sono svariate razze aliene, una flora e una fauna accuratamente descritte, una tecnologia che segue dettami precisi, una curiosità “etnografica” che guida Carter lungo il suo percorso e i suoi viaggi, che dà l’impressione di avere davvero a che fare con delle civiltà antichissime. Insomma senza Burroughs sarebbe stato difficile immaginarsi classici successivi come Flash Gordon o addirittura il ciclo di Dune di Frank Herbert. Infatti, il mondo desertico di Arrakis ha più di qualche debito con il Barsoom (così i marziani chiamano il loro pianeta) di questo scrittore dei primi del Novecento. E anche il personaggio femminile principale, la principessa Deja Thoris (bella, con la pelle rossa e sempre nuda), ha creato un archetipo che arriva lontano, sino alla Neytiri di Avatar. Allora ben venga anche il filmone da guardare mangiando i pop corn. A Burroughs, una specie di Salgari più fortunato, piaceva divertire.

Però se i suoi marziani hanno sei braccia come gli animali del pianeta Pandora di Avatar (la vulgata vuole che per progettarli siano stati consultati fior di scienziati) allora val la pena aprire ancora le sue pagine con reverenza.

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