L'italiano che domò gli afghani: ecco chi era il terrore dell'Asia

Una storia di avventura, sangue e guerra che parte dal Regno delle Due Sicilie e finisce nell'antica Persia. Così Paolo Avitabile divenne il più pericolo giustiziere delle rivolte afghane

L'italiano che domò gli afghani: ecco chi era il terrore dell'Asia

Tra le vecchie storie che ancora si raccontano in Afghanistan, la scacchiera di sabbia e sassi dove da oltre tre secoli si disputa il “Grande Gioco” e noto per essere la "Tomba degli imperi", è ben impressa nella memoria di quanti vi hanno transitato la storia del generale Paolo Avitabile, un napoletano di umili origini, soldato di ventura e ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che arrivò nel vicino Oriente nel XIX secolo, per rimanere nella leggenda come Abu Tabela, “il terrore afgano”.

Nato nel 1791 ad Agerola, altopiano che domina il mare tra Amalfi e Positano, Avitabile entrò sotto le armi giovanissimo, per sfuggire alla povertà, e imparò presto i segreti dell’arte militare che, oltre ai gradi di ufficiale, lo avrebbero presto portato ad ammodernare e comandare due tra i grandi eserciti d’Oriente.

Dopo essere stato alle dipendenze delle Scià di Persia, raggiunse le inospitali alture che dividevano l’Afghanistan dall’India (oggi Pakistan) nel 1835. Ben presto divenne governatore della regione strategica del Punjab - crocevia fondamentale della “Via della Seta” e snodo fondamentale del Grande Gioco che intratteneva spie e diplomatici inglesi e russi - ma soprattutto si trasformò nello spauracchio di rivoltosi e criminali, data la sua inclinazione naturale a divenire una sorta di Vlad di Valacchia - il famoso conte Dracula - attraverso la sanguinaria pratica dell’impalamento, dell’impiccagione e dello squartamento dei briganti. Metodi “sbrigativi”, certo, ma quanto mai efficaci. Che gli costarono la fama di cruento e spietato despota, leggendario protagonista di storie terribili che vengono ancora raccontate ai bambini dei villaggi per intimorirli - "Se fai il cattivo ti do ad Avitabile", dicevano le madri ai bambini, come fosse l'Uomo nero o il Babau. Ma che gli permisero di mantenere il controllo dove nessun altro straniero era stato capace d’imporlo.

Si dice infatti che Avitabile, ingaggiato appositamente per governare i territori separati dal Passo Khyber, si svegliasse ogni mattina con la ferma convinzione che lasciar penzolare un brigante dalla forca o direttamente dal minareto più alto della moschea di Peshawar avrebbe indotto gli altri a pensarci due volte prima di agire contro il suo governatorato. Così facendo avrebbe, presto o tardi, sedato scontri e disordini che infestavano quei luoghi dove ormai le armate sikh, affidate al suo comando dal maharaja Ranjit Singh, lo avevano già reso celebre con il nome di Abu Tabela. Un nome che ancora risuona in quelle valli così distanti dalla Costiera.

Un nome per sempre legato al temibile "pragmatismo" del giustiziere di Pashawar che aveva ghermito i ribelli pashtun facendoli uccidere davanti ai suoi occhi, mentre lui, impettito e coperto di alamari, beveva caffè per colazione.

Nella sua uniforme di da ufficiale borbonico, con i suoi folti baffi imperiali, l'avventuriero napoletano che faceva "un uso smodato dello champagne”, si era guadagnato il grado di colonnello, il titolo di Kahn presso il regno di Persia, e la stima dei britannici per aver tenuto lontani da quelle terre contese i russi. Da Peshawar Avitabile controllava di fatto l’accesso al passo del Kyber, e con quello tutte le zone strategiche per il primo conflitto anglo-afghano. Dopo una lunga avventura alle porte dell’Asia, e accumulate ingenti ricchezze per i servigi offerti ai regnanti di metà delle terre conosciute. Se ne tornò nella sua bella Napoli, stabilendosi poi a Castellammare di Stabia. Nel 1844.

Morì pochi anni dopo in circostanze mai chiarite. Qualcuno mormora sia stato avvelenato attraverso un piatto di agnello dalla sua giovanissima moglie, già promessa ad un altro uomo. Qualcuno, per i “fumi emessi da una stufa”. Era comunque l'inizio della primavera del 1850 quando spirò. Dopo aver investito parte delle sue fortune nell'agricoltura e nell'allevamento di bestiame. Aveva, tra le altre cose, incrociato delle vacca Jersey donategli dagli inglesi con le vacche locali, dando vita a una nuova e apprezzata razza: le “agerolane”.

Nonostante una morte ridicola, in contraddizione con la magnitudine della sue imprese, gli restava restava appuntata sul petto la decorazione dell'Ordine del Leone e del Sole conferitagli dallo scià di Persia Fath Ali Shah, e la Legion d’Onore, la più alta onorificenza di Francia, conferitagli dal Re Luigi Filippo. Nel fodero portava ancora una sciabola intarsiata d’oro, con fregi della Compagnia delle Indie e dell’Impero britannico, che simboleggiava la gratitudine della Corona per essersi dimostrato nel momento del bisogno un "gallant officer”. Sulla facciata del suo palazzo, costruito con sterline inglesi, e caduto in rovina (per essere poi sfacciatamente abbattuto nel ’37), restava invece un’incisione da lui molto desiderata. “O beata solitudo, o sola beatitudo”.

La solitudine forse, di chi aveva ottenuto in grande successo dove tutti gli altri avevano e avrebbero fallito - tra jihad, cariche di cavalleria e giochi di spie. Poiché dove non riuscirono i generali britannici, gli eserciti della Russia zarista prima, e sovietica poi, e financo gli astuti strateghi del Pentagono; era riuscito quel solitario napoletano.

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