Narrativa

«Perché la vita non è un film: tutti mentono, i buoni perdono e l’amore non conquista tutto». Così pontificava il produttore Kevin Spacey in Il prezzo di Hollywood dopo esser stato legato a una sedia da un ambizioso sceneggiatore stanco delle sue tirannie. Era un film sulla Mecca del cinema anni ’90 che, quanto al rapporto vittima-carnefice tra il boss e l’assistente, molto avrebbe da insegnare alla dispotica Anna Wintour di Il diavolo veste Prada. Era un film girato negli stessi anni di Meno di zero di Bret Easton Ellis, quando Hollywood si era del tutto trasformata in Babilonia. Dopo che proprio Ellis è ritornato con un romanzo sulla Hollywood contemporanea, essenza diabolica di cocaina, silicone, sesso estremo e cronaca nera, impressiona ancor più la lettura di un romanzo che Baldini Castoldi Dalai ripubblica in una nuova traduzione di Matteo Sibaldi: Il parco dei cervi di Norman Mailer (in uscita il 20 gennaio, pagg. 384, euro 19, il romanzo fa parte di una serie di titoli di Mailer che, dopo la scomparsa dello scrittore nel 2007, l’editore ha riproposto, tra cui La costa dei barbari e Pubblicità per me stesso).
«Il più caro dei miei lavori», lo definiva Mailer - che nel 1955 in cui lo pubblicò fondo anche «The Village Voice» - è, in breve, la storia narrata in prima persona di Sergius O’Shaugnessy, «il falso irlandese di un orfanotrofio autentico, un pugile che non sapeva picchiare, un pilota che aveva perduto la prontezza di riflessi, un potenziale spione al servizio di qualsiasi poliziotto disposto a suonargliele, e, cosa peggiore di tutte, un pivello imberbe in camera da letto», come lui stesso si definisce, che ha soprattutto il terrore di morire perdente. La sua vicenda si intreccia con quella della giovane attrice Lulu Meyers e del regista Charles Eitel, «comunista che fa il Pigmalione da boudoir con l’ex protetta di un importante produttore», la capricciosa Elena Esposito. Il tutto a Desert d’Or, immaginaria enclave tra i cactus ricolma di attori, registi, produttori e starlette, oasi di ricchezza dalle cui piccole alture, all’alba, guardando a oriente, si può scorgere la Mecca: Hollywood. Desert d’Or è il ghetto di lusso in cui si lotta per il successo, parola che per ogni protagonista ha un diverso significato, ossessione di rivincita su qualcosa o rivalsa su qualcuno. Desert d’Or è come «il Parc aux Cerfs, quella voragine dell’innocenza e della virtù che inghiottì tante vittime, le quali, una volta restituite alla società, vi diffusero la depravazione e tutti i vizi delle persone infami preposte a quel luogo», come è scritto nell’epigrafe al romanzo che descrive la vita ai tempi di Luigi XV.
«Ogni tanto avevo l’incubo di domandarmi che sarebbe successo se il libro fosse stato portato davanti al tribunale per oscenità» scrive Mailer. «Nel mondo editoriale la paura della censura, convulsione a scoppio ritardato degli anni di McCarthy, era forte... il romanzo mi sembrava sovraccarico, addirittura un’opera spaventosa, un freddo scalpello nel sordo mortaio della nostra colpevole società. Nella mia mente divenne un libro più pericoloso di quello che in realtà era e, nella paranoia che la droga mi procurava, vedevo strascichi a non finire nella più semplice battuta di dialogo». Eppure un libro tanto forte e premonitore, in cui Mailer riversa la propria esperienza come sceneggiatore alla fine degli anni ’40, è stato dimenticato da pubblico e critica: in occasione dell’ultima consegna degli Oscar, il sito-magazine di Tina Brown The Daily Beast ha stilato un elenco dei cinque romanzi migliori su Hollywood, che hanno fatto del luogo e dei suoi miti un genere letterario, la «Hollywood Novel». Ci sono Il giorno della locusta di Nathanael West (1939), in cui l’autore si narra sceneggiatore negli anni Trenta nel grottesco Paradiso che L.A. era per disperati d’ogni sorta; l’incompiuto Gli ultimi fuochi (1941) di Fitzgerald, in cui Hollywood è quinta grandiosa per chimere struggenti e crepuscolari; poi Prendila come viene di Joan Didion (1970), Children of Light (1986) di Robert Stone e Il giocatore di Michael Tolkin (1988): tre storie di crolli psicotici, suicidi, omicidi, droga, alcool e bisessualità.
Mailer manca. Eppure il romanzo riempie il vuoto narrativo sulla Hollywood del Maccartismo, inaugura la narrazione esplicita di un certo sesso, indaga in modo spassionato e tormentato il dilemma irrisolto di ogni relazione umana: «Il parco dei cervi è ossessionato da che cosa siano sesso, amore, come si combinino e si separino - racconta Mailer in una lettera del settembre ’53, durante la stesura del manoscritto - ma la cosa divertente è che ha finito per diventare più politico - dato che amore e sesso sono connessi con la morale e la morale con la società - de La costa dei barbari...

Andai a Hollywood quattro anni fa per scriverci sopra un grasso e grosso romanzo collettivo, cosa che ogni giovane scrittore desidera. Dopo molti anni, invece, ho scritto un libro in cui la parola Hollywood non compare mai e dove le scene migliori sono quelle che ho immaginato».

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