C'è chi il Natale se lo può permettere e chi no. Ma per chi se lo può permettere ogni anno è sempre la stessa commedia, che va avanti - almeno finora - perché piace.
Piacciono gli addobbi, i festoni luminosi, piace l'albero, piace il presepe. Ogni anno, ai primi di dicembre, si riaprono gli scatoloni tolti da qualche scaffale nello sgabuzzino e si tirano fuori le statuine, le palle dell'albero. Poi, il sette di gennaio, tutto tornerà nello sgabuzzino, e anche le luminarie spariranno. Sarà tempo di pensare al carnevale, alla dieta in vista del bikini estivo.
C'è naturalmente il Natale consumistico e quello che si celebra in chiesa, con i preti impegnati a stigmatizzare il consumismo e a richiamare i fedeli all'autentico significato del Natale.
Tutto questo sa di commedia, con le parti assegnate e mandate a memoria: e se questa commedia funziona da così tanto tempo una ragione c'è, ed è il fatto che, credenti o no, tutti vorremmo volerci un po' più bene di come ce lo vogliamo, e le persone anziane meritano un po' di festa, e meritano i baci dei nipoti che per il resto dell'anno se ne fregano di loro. C'è naturalmente lo scambio dei regali. Succede nel Natale consumistico ma succede anche, con fetta di panettone e brindisi con bicchieri di plastica, nelle parrocchie. Perché fare e ricevere regali è bello, perché senza doni non si vive, perché qualcosa ci deve essere dato gratis, perché un mondo in cui tutto ciò che esiste si deve pagare è davvero un brutto mondo e non merita di essere calpestato dai nostri piedi umani. Tutto questo è pieno di contraddizioni, ma in fondo non è che l'ingrandimento di quello che succede in ciascuno di noi. Tutti vogliamo godercela, tutti vogliamo amarci di più, tutti amiamo dare e ricevere doni, tutti vorremmo farcela ma poi il più delle volte non ce la facciamo, e anche così è stato bello: anche solo desiderare di farcela.
Ma quest'anno un tono di volgarità si è aggiunto che, mascherato da realismo, copre questa festa con una coltre di cinismo che non merita. Per quanto un po' ipocrita, questa festa non è insincera, c'è qualcosa di vero che s'intrufola nelle parole già dette, nei baci ripetuti, nelle frasi d'occasione. Il teatro non è tutto una finta. Non lo è Euripide, non lo è Shakespeare, non lo è Goldoni. Lo stesso vale per Natale: sarà tutto un teatro ma non è tutta una manfrina.
Questo buttare tutto in vacca, questo senso di volgarità, di povertà umana, di ignoranza perseguita come se fosse un valore è ben rappresentato da uno spot tv dove un eccellente showman, legato da contratto a un'azienda di telefonia, interpreta la parte di una specie di mago che, sotto Natale, fa sparire tutto ciò che, a Natale, non interessa in realtà a nessuno: via perciò l'albero, via anche la famiglia - già, a cosa serve la famiglia?, pfui alla famiglia - per proclamare, alla fine, l'unica verità, e cioè che la gente (la gente, capite?) vuole solo i regali. Guardo questo bravo attore e leggo il disgusto sulla sua faccia, nei suoi occhi: non ha voglia di dire quelle parole, non ci crede, ma è sotto contratto e deve prestare perciò la sua povera faccia a queste parole meschine.
Un personaggio emerge dalla fanghiglia dello spot: la «gente». Chi diavolo è, la «gente»? Quella che vuole solo i regali, quella che non ha famiglia, quella a cui non interessano né l'amore universale né il panettone con le uvette, quella che non vede l'ora di spacchettare il suo regalo e tirare fuori il solito telefonino, il solito tablet. Qui Gesù Bambino non c'entra più, non c'entra più né il consumismo né l'autenticità del Natale. La commedia è finita: la gente vuole i regali, li pretende, e pretendendoli non si rende conto - ed è proprio così - di non avere più nessuna idea di cosa sia, veramente, un regalo, un dono.
Chi non ha ricevuto un vero dono non sa di cosa si tratti, e parla tanto per parlare. Un vero dono riapre il cielo, spalanca in un altro modo le giornate fin dal loro inizio. Un grande dono riduce il tasso di paura, ci aiuta a essere soltanto quello che siamo senza preoccuparci di apparire qualcosa. Un grande dono ci rende partecipi di una storia imprevedibile, che non è cominciata ieri e non finirà oggi pomeriggio, ma si dilata a dismisura, così che ogni nostro istante si riempie di possibilità per quello successivo. Quando si è ricevuto un vero, grande dono (il Cristianesimo usa la parola Grazia) la vita non ci spaventa, la morte ci fa paura ma non ci atterrisce, e stare al mondo è più bello anche nel dolore e nella perdita. Ma chi sa davvero che cos'è un regalo non si confonde con la «gente», comincia ad avere un «io», conosce meglio se stesso e i propri desideri. Poveri noi, se ci riduciamo a «gente» che disdegna l'albero e la famiglia (che l'albero simboleggia) e vuole cose e cose senza nemmeno sapere perché le vuole, e forse non le vuole nemmeno.
Un giorno un ex-carcerato mi ha confessato di avere ucciso per avere cose che poi ha scoperto di non desiderare nemmeno. Ma è una legge universale: siamo fatti così. Uccideremmo pur di avere quello che non desideriamo, perché ciò che desideriamo davvero - e la pace che ne consegue - ce li può insegnare solo un grande dono.
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