«Non sono qui per essere felice» Viaggi e avventure di Rimbaud

«Non sono qui per essere felice» Viaggi e avventure di Rimbaud

A 22 anni, nel 1876, Arthur Rimbaud aveva già vissuto un paio di vite normali. Studente brillante, aveva vinto il primo premio per la poesia in latino tra i ragazzi francesi. Era finito in carcere in seguito a una fuga verso Parigi dalla sua Charleville. Rilasciato, era scappato poco dopo, destinazione Bruxelles. Si era trasferito nella Capitale su invito del famoso poeta Paul Verlaine. Aveva composto, sedicenne, futuri classici della poesia come Il battello ebbro. Aveva convinto l'amante Verlaine a mollare, con enorme scandalo, la moglie e la placida quotidianità borghese. Era stato ferito da un colpo di rivoltella di Verlaine stesso dopo un litigio in una stanza di hotel a Bruxelles. Si era congedato dalla letteratura, non prima di aver ultimato Una stagione all'inferno (1873) e le Illuminazioni (scritte forse tra il 1872 e il 1875).
Il 1876, come ricorda Jamie James in Rimbaud in Java. The Lost Voyage (Edm, 2011), è un anno centrale nell'enigma che ancora affascina tutti i lettori di Rimbaud, e tutti coloro che sono interessati a capire cosa sia la creazione artistica. Rimbaud parte per una interminabile serie di viaggi. Nel 1876 l'ex poeta appare, scompare, attraversa mezzo mondo. I suoi trasferimenti sono segnalati dagli amici, in particolare lo scrittore Ernest Delahaye. Bruxelles, Rotterdam, Le Halder, Southampton, Gibilterra, Napoli, Suez, Aden, Sumatra, Giava, Città del Capo, St. Helène, Ascensione, Azzorre, Queenstown, Cork, Liverpool, Le Havre e infine di nuovo Charleville, in dicembre. In mezzo ci sarebbe un'avventura straordinaria, Rimbaud che si arruola nella legione straniera olandese, sbarca a Giava, diserta, vive nella giungla per due mesi, riparte come marinaio sotto falso nome, rientra in Europa. Sono viaggi per sentito dire. La fonte di Delahaye è quel burlone di Rimbaud stesso, che in realtà di tracce non ne ha lasciate troppe. Insomma, nel 1876 inizia il mito di Rimbaud.
Si capisce alla perfezione leggendo i due bellissimi, necessari tomi curati da Vito Sorbello per le edizioni Aragno (Arthur Rimbaud, Non sono venuto qui per essere felice. Corrispondenza 1870-1891, 2 volumi, euro 50). Oltre mille pagine in cui Sorbello raccoglie tutte le lettere (edite e inedite in Italia) del poeta, accompagnate dalle testimonianze indirette che possono aiutare a ricostruire il quadro biografico. E dare forse un senso al rifiuto del proprio talento che segnò la vita di questo straordinario scrittore.
Sorbello invita a leggere tutto Rimbaud: «Leggiamo il poeta e pure il negoziante d'Africa. Leggiamo le poesie di Rimbaud, le lettere del Veggente, ma anche le sue lettere dall'Africa alla famiglia che ci dicono le sue erranze e il duro lavoro sulle rive del Mar Rosso. Se un giorno Rimbaud ha deciso di “pisciare sulla sua opera, da rilevante altezza”, e andarsene a “trafficare nell'ignoto”» tale gesto, lungi dall'essere una bizzarria, aggiunge «qualcosa di decisivo» alla sua opera.
La poesia si è rivelata una strada chiusa. Il «ragionato sregolamento di tutti i sensi» non ha funzionato. Forse, però, esiste un altro modo di essere veggente, di esplorare l'ignoto dentro e fuori di sé: in Abissinia, «io è un altro» per davvero. In questo caso «io» è un trafficante d'armi, un esploratore, un uomo pratico che legge solo manuali tecnici. Cosa c'è di più diverso dal poeta vagabondo e sfaccendato? Scrive ancora Sorbello: «Appena intravede la possibilità di lasciare Aden, “il posto più noioso della terra”, per Harar, la città abissina sulla costa opposta dell'Africa, Rimbaud avverte per quei luoghi misteriosi, quelle contrade ribelli un'invincibile attrazione. Nel nome Harar sente come un'eco del proprio nome, e tutta l'aridità cui si è condannato. In quello di Abissinia l'eco degli abissi, del paese abissale, dell'ignoto sempre cercato». Dal 1880 in poi Aden e Harar saranno dunque i suoi luoghi elettivi. In Africa commercerà, con alterne fortune, in caffè e armi. Fino ai dolori articolari al ginocchio, al ritorno forzato a Marsiglia, all'amputazione, alla morte sopraggiunta il 10 novembre 1891. Nelle sue lettere alla famiglia c'è un amaro disincanto anche per la fase «africana» della sua vita. Rimbaud lo ammette schiettamente: «È evidente che non sono venuto qui per essere felice». Ha scoperto che la realtà non gli basta. Proprio come la poesia.
A proposito. Il 17 luglio 1890, Laurent de Gavoty, direttore di una piccola rivista marsigliese, France moderne, gli indirizza questo messaggio: «Signore e caro Poeta, ho letto i suoi bei versi: questo per dirle che sarei felice e fiero di vedere il capo della scuola decadente e simbolista collaborare con la France moderne, di cui sono il direttore». L'oscuro «infortunio» della poesia e l'altro se stesso ormai sepolto tornano a ripresentarsi a Rimbaud, giunto ormai agli sgoccioli. Il trafficante d'armi non risponde. Ma il poeta non strappa il biglietto come era solito fare. Lo piega con cura e lo mette da parte.

Sarà ritrovato tra le poche lettere portate con sé all'Ospedale di Marsiglia. L'episodio prova un fatto e suggerisce una ipotesi. La fama letteraria di Rimbaud era in crescita nonostante la sua completa noncuranza. E forse il trafficante d'armi provava ancora qualcosa per il poeta che era stato.

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