A rappresentare il concetto di alterità nell'immaginario collettivo occidentale è stato l'aggettivo «barbarico» che, pur nella pluralità dei suoi elementi compositivi, si è confermato come uno dei modelli interpretativi più utilizzati. Al di là dei campi linguistici, antropologici o filosofici, l'idea di barbaro è infatti sempre stata associata allo straniero e alla diversità: a quell'altro da noi, con il quale si potevano raramente instaurare sistemi di relazioni commerciali, ma contro il quale era sempre giusto condurre guerre di civiltà.
Parte da queste premesse Barbarie (Bur, pagg.188, euro 11), il volume curato da Ivano Dionigi e che vede tra i coautori anche Massimo Cacciari, Franco Cardini, Sergio Givone e Valerio Magrelli. Dall'idea cioè che ogni cultura si è inventata i propri barbari, tanto da rendere impraticabile ogni altra definizione che non fosse declinabile in termini imperialistici e di conquista: per Roma, i barbari saranno infatti i Greci; così come i Persiani per i Greci, in un orizzonte infinito di correlazioni che si ripeteranno periodicamente.
Eppure questo concetto non è una creazione di tutta la cultura greca. In Omero, per esempio, non c'è alcun riferimento negativo allo straniero. La sua narrazione epica è priva di una costruzione di carattere propagandistico che, invece, diventa tale e si trasforma in eredità trasmissibile quando, con le guerre persiane, la contrapposizione è vissuta in chiave culturale e i Greci hanno bisogno di sostanziare su basi teoriche il loro primato militare.
È in quel momento che, come afferma Cardini, il barbaro diventa necessario, e l'alterità viene utilizzata per rendere omogenea l'identità dei greci. Attraverso tracciati obbligatori e seduttivi come l'etnia o un diverso grado di civilizzazione, questa idea si innerverà lungo tutta la storia dell'Occidente. E proprio lo storico fiorentino a ricordarci che già nel 1919, alla Columbia University, si inaugurò un corso di studi denominato Western Civilitazion attraverso il quale si evinceva quanto un coeso processo evolutivo che dalla Grecia antica, passando per l'Europa rinascimentale fino ad arrivare agli Stati Uniti, avesse potuto naturalmente favorire il ruolo egemonico di quest'ultimi.
Viste queste premesse, il modello occidentale non poteva non essere immune da una pervasività enfatica che porterà a ritenere anche i recenti conflitti come guerre giuste o umanitarie. Ma c'è un ulteriore dato. Per Cacciari, l'Occidente ritrova oggi, in coloro i quali si appressano alle nostre frontiere, la figura del barbaro che incorpora simulacri antichi e moderni. L'inimicus feroce come una fiera intrattabile e impossibile da addomesticare sarebbe la sintesi perfetta della modalità simbolica di amico-nemico.
Tuttavia il libro si ferma qui, toccando solo marginalmente il cuore del problema che è invece sintetizzato dal sottotitolo: «La nostra civiltà è al tramonto?». Perché noi viviamo in una prospettiva annichilente provocata non più dai barbari, cioè da elementi esterni, ma dal disarmo teorico e sociale nel quale ci siamo rinchiusi. E perché per la prima volta nella storia si fondono in uno stesso modello e in maniera compatibile civiltà e barbarie che sono facce della stessa medaglia.
La prima ci ha affrancato da limiti di tempo e di spazio. E ciò è un fatto positivo. Possiamo infatti muoverci, comunicare, produrre come mai nella storia dell'umanità. Ma la seconda, grazie all'illusione di arricchirci continuamente di nuove creazioni e spazi di conquista, ci sta privando di ogni orizzonte di senso facendoci saziare di medesimi sogni e bisogni. È perciò barbarico ostentare una cieca fiducia nella scienza, abbandonarsi all'immaginario consumistico dove il superfluo diventa essenziale, all'idea utilitaristica della felicità, alla bellezza che si confonde con il kitsch, e ad un destino in cui le maggiori opportunità garantite dal progresso tecnico possono corrispondere a evidenti restrizioni in termini di privacy e di diritti.
Da questa prospettiva d'assieme se ne ricava una considerazione molto semplice: non possiamo più nasconderci in un semplice gioco dialettico secondo il quale i barbari sono altro da noi.
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