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Ma il "nuovo realismo" perde di vista la realtà

Gli esempi che Maurizio Ferraris adduce per una diversa visione del mondo considerano il reale come un male da cui emanciparsi

Ma il "nuovo realismo" perde di vista la realtà

Sul piano della filosofia, il 2012 è stato l'anno del nuovo realismo. Con uno sponsor come La Repubblica, un testimonial come Eco, un brillante filosofo-divulgatore come Maurizio Ferraris, un nemico doppio come Vattimo-Berlusconi, gli ingredienti c'erano tutti per sfondare. Il realismo, fuori dal cinema e dalla letteratura, si era ridotto a un concetto un po' torvo, sinonimo di cinismo o di realismo socialista. Nel new realism filosofico non c'è traccia del realismo classico, di Aristotele e Tommaso; non c'è nemmeno la contesa con gli avversari storici, l'idealismo, il pensiero utopico, il surrealismo. Per il N.R., la realtà esiste e ci resiste, non dipende da noi e non si risolve nelle nostre interpretazioni. Di buono, oltre il sentore della realtà, c'è l'odore pur vago della verità, a cui Vattimo aveva dato addio. La realtà è il punto di partenza di ogni buona filosofia: anche il pensiero più alto deve partire dal mondo, dalla vita, dalla condizione umana, dalla nascita e dalla morte, dal senso comune e dal linguaggio comune. Partire, non esaurirsi.
Ma a leggere i testi più vivaci e significativi (ne richiamo almeno due, Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris, edito da Laterza, e Bentornata realtà di autori vari, tra cui Eco, Putnam e Searle, edito da Einaudi) sorgono alcune obiezioni. La prima è sull'avversario scelto, il postmoderno, da Vattimo alle sue fonti: un interlocutore troppo debole e sfuggente per elevarlo al rango di antagonista del reale e del suo pensiero. Il postmoderno è visto come un pensiero che dissolve la realtà, la verità e l'etica. Ma già la modernità aveva subordinato realtà, verità ed etica al soggetto, alla ragione, alla storicità, all'utile e all'ideologia. La postmoderna relativizzazione della realtà, della verità e dell'etica nell'interpretazione soggettiva era già nel progetto illuminista e moderno.
Quel che collassa nel postmoderno è l'impalcatura storico-dialettica del moderno: finiscono le divinità storiche e ideologiche e la loro drammaturgia; trionfa il singolo, il frammento, il momento. La negazione della realtà percorre il pensiero moderno sin dal suo sorgere, è ingiusto caricarla sulle deboli spalle dei suoi epigoni, i postmoderni. L'abolizione della realtà è stato il sogno rivoluzionario della modernità. Il comunismo, dice Marx, «è l'abolizione dello stato di cose presenti»; per Engels «tutto ciò che esiste merita di perire». E se la realtà diverge dal progetto, «tanto peggio per i fatti». Il realismo era considerato sinonimo di subordinazione alla realtà, conservatorismo, remissione più che resistenza. Per il pensiero della modernità la verità, il senso comune, il vero e il fatto vichiani andavano storicizzati, demistificati, rovesciati, fino a che il progresso sostituiva la realtà, la storia la natura, la società futura la società presente. Col moderno il possibile vince sul reale.
Per il new realism bisogna ripristinare l'oggettività, la realtà, la verità contro il postmoderno. Ma gli esempi che adduce Ferraris considerano la realtà come un male da cui emanciparsi; realtà è la mafia, la Shoah o...Berlusconi. Chi ignora la realtà è destinata a subirla. Riconoscerla è la premessa per trasformarla. La realtà esiste e avvelena anche te, digli di smettere... L'effetto politico del postmoderno è per Ferraris il populismo mediatico, in una parola Berlusconi, che sostituisce la realtà col reality e manipola la verità.
Non sarebbe difficile dimostrare che da un verso i populismi sono fondati sul richiamo alla realtà, magari rozza, semplificata o usata come corpo contundente contro l'artificio, la setta e l'ideologia; e dall'altra che la politica moderna già surrogava la realtà con l'interpretazione, la tradizione con l'emancipazione, il sentire comune col soggettivismo, l'esperienza del reale col progresso e subordinava la verità alla manipolazione ideologica. Nel populismo mediatico il reality funge da mito; il nuovo canone è il format. Ma è tarda o estrema modernità. Le sue tare sono figlie della modernità. Più prudente Umberto Eco, il quale si arrende allo zoccolo duro del reale e si attesta su un realismo negativo che ricalca la teoria della falsificabilità di Popper: abbiamo esperienza della realtà perché è il nostro limite. Non è una gran scoperta; ma anche Eco coglie il reale nel suo lato maligno, ostile; negativo, appunto.
Ferraris è dentro la prospettiva di Richard Rorty, la priorità della democrazia sulla filosofia. È dentro il primato della prassi sulla teoria. Come prescrive l'XI tesi su Feuerbach di Marx, finora è stato diversamente interpretato il mondo, ora va cambiato. La vera svolta ontologica e realista sarebbe opposta: finora abbiamo modificato il mondo, con la tecnica e le rivoluzioni, si tratta ora di conoscerlo, di capire la realtà. Priorità del pensiero sulla prassi, della ricerca della verità sull'effetto storico, prodotto o voluto. Qui ci soccorre un testo pubblicato quest'anno ma scritto nel 1914, Il significato dell'idealismo di Pavel Florenskij (edito da SE). Florenskij oppone al realismo il «terminismo», ossia la convinzione che ogni cosa si riduca ad attimo scollegato dal tutto. Il realismo, invece, mostra che le cose, i fatti, i momenti non sono isolati, ma si connettono all'esistenza intera, hanno radici e cordone ombelicale, sono in relazione col mondo, col passato e col futuro. «L'idea è il volto della realtà», non la sua negazione, ma la sua espressione più alta e luminosa. Siamo tutti figli del Novecento ma questo è pure il secolo di Florenskij e di Valéry, di Simone Weil e di Gentile, di Guénon e del Ritorno al Reale di Gustave Thibon.
Alla maturità portai una tesina su «La decomposizione della realtà». Non c'era ancora il postmoderno e mi aveva colpito una citazione di Evola: «La realtà è un'allucinazione potente e costante, l'allucinazione è una realtà debole e fuggente». Tra realtà e illusione, tra il sogno e la veglia, c'è differenza di gradi, intensità e durata, non ontologica o assoluta. Quella frase mi parve il punto di partenza per riflettere sulla realtà. La tesi di quel ragazzo era la seguente: la realtà svanisce se perde il fondamento metafisico e il suo legame d'origine che la collega al mondo, ossia se cede al soggettivismo.

Mi pare perciò assai riduttivo, forse piccino, un realismo che scopre la realtà in opposizione al postmoderno, la usa come base per rilanciare un'etica politica del risentimento e risolve il realismo nel puro manifestarsi degli oggetti e degli effetti (soprattutto nocivi). Realismo è scoprire che la realtà è viva, animata e collegata, è il fenomeno visibile di un'origine invisibile, come il frutto deriva da una radice. Meglio tornare alla realtà con Florenskij.

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