
Villa Crespi è uno dei migliori ristoranti d’Italia. Lo dice la Michelin, che inserisce il locale a Orta San Giulio, sul lago d’Orta tra i 14 che vantano tre stelle Michelin, il massimo dell’eccellenza, mentre l’altra guida leader in Italia, il Gambero Rosso, lo piazza con 93 centesimi al nono posto in Italia. Io, per quanto mi riguarda, è al locale di Antonino Cannavacciuolo che penso quando immagino di dover consigliare un ristorante fine dining ai massimi livelli a qualcuno che l’alta cucina non l’ha mai frequentata e volesse avere un’esperienza indimenticabile. Perché la cucina del giudice di Masterchef è sì di perfetta tecnica e di pensiero, ma è anche godibilissima e non necessità di alcun libretto di istruzioni.
Villa Crespi è un luogo magnifico. Un relais a cinque stelle in stile arabeggiante, con tanto di minareto, di un lusso vagamente cinematografico senza molti pari in Italia. Anche il ristorante, che si snoda attraverso alcune sale e una veranda, ha dettagli moreschi. La cucina è una delle più famose d’Italia, quella di Antonino Cannavacciuolo, 50 anni da poco compiuti, anche se lui, in un’intervista che mi ha recentemente rilasciato, dice di avere “la testa di un ventenne”. Cannavacciuolo, lo sanno tutti, è campano di costiera, arriva da quella città magica per il cibo che è Vico Equense, e la sua terra di origine è protagonista della sua proposta, che lascia però anche spazio a un territorio, il Piemonte, davvero ricco di spunti.
Cannavacciuolo e la sua squadra (citiamo i sous-chef Simone Corbo e Andrea Romano e il pastry chef Federico Pascale) propongono due menu degustazione: il Mettici l’Anima è, come dice il nome, quello che racchiude tutto l’impegno di Cannavacciuolo per interpretare lo spirito del suo tempo, ed è composto da dieci passaggi (più varie ed eventuali) al costo di 300 euro a persona. Nel Nome del Gusto è un percorso più classicheggiante, otto portate a 280 euro. A entrambi i percorsi è possibile aggiungere un abbinamento di vini studiato dal sommelier Massimo Raugi (tra i migliori professionisti del nostro Paese) e la visita del magnifico carrello dei formaggi, a cui gli appassionati del genere non dovrebbero rinunciare.
Mi accomodo in veranda, la giornata è indecisa sul da farsi: piove? Non piove? Su di me splende il sole, questo è poco ma sicuro. Sibito arriva una raffica di snack da mangiare con le mani: Maccheroncino con ragù napoletano e parmigiano, Frisella con pomodoro marinato, Gnocchetto squacquerone, prosciutto di Parma, Cialda con nero di seppia, spuma di sedano e gorgonzola, Macaron al foie gras. Poi si parte: Ricciola marinata in sale e zucchero, erbette spontanee del vicino orto botanico, estrazione di due differenti risi, il Mosho e un Carnaroli lavorati in modo da dare un potente tocco umani. In contemporanea arrivano anche le prime notizie dal forno: grissini stirati a mano al sesamo nero, la pagnotta da lievito madre e il burro della Val d’Ossola con sale di Cervia, “il migliore amico del pane”.
Poi lo Scampo di Mazara del Vallo alla pizzaiola, vellutata al datterina crudo, maionese di polpo, olive di Gaeta disidratate e origano fresco, chela di scampo nella sua bisque e maionese al limone. Si tratta di uno dei piatti iconici di Cannavacciuolo e induce certamente a un sorriso di felicità. Quindi si insiste nella mediterraneità con la Melanzana, il cui cuore viene fritto leggermente e glassato nel burro e kimchi, tre pomodori, basilico fresco e salsa di mandorle. Poi si va sul Piemonte: i Plìn di spalla d’agnello tostati al tovagliolo che nascondono un piatto che è tanti piatti assieme: sotto la zuppa forte di maiale con tutti gli scarti tranne polmone e fegato, in mezzo spuma di patate affumicate, poi il gambero rosso. Un capolavoro.
Non è finita la meraviglia: Coscette di rana del Monferrato disossate e dorate nel burro nocciola intinte in una crema inglese all’aglio dolce-rosa, poi una crocchetta di riso soffiato canadese Zinzania con ragù di rana al pomodoro. Quindi la Cipolla sotto sale, duxelle di funghi e ripieno di tartufo nero e spinaci, semi di papavero e salsa al caviale e Champagne; ultima proposta salata, un pezzo di Comté di Marcel Pett che fa lunghe stagionature in una cava di questo grande formaggio. Io ne assaggio uno di 36 mesi servito insolitamente con una tisana di malva, melissa, camomilla, liquirizia e finocchio. Perfetto compagno della cristallizzazione dei formaggi.
Chiusura dolce che spiazza ancora: che ne dite degli Spaghetti ai tre pomodori come predessert? Mangio e approvo. Peraltro sarebbero un piatto trionfale in ogni menu, altro che questo interstizio. Infine il Babamisù e una piccola selezione di pasticceria: Canelè di zafferano e mostarda di mele, Baba tonic, l’Aragostina con panna fresca.
Che dire? Un pranzo glorioso, solenne eppure abbracciante, una vigorosa pacca sulla schiena che ridesta e fa capire che sì, investire una cifra consistente per venire a mangiare
qui costa magari qualche rinuncia ma cambia per sempre i parametri del mangiare bene, consapevole, misurato e di un’accoglienza senza scalfiture. Antonino monumento nazionale, teniamocelo stretto e ascoltiamolo sempre.