«Ma fammi il piacere...». Quando qualcuno la spara troppo grossa o la fa fuori dal vaso, gli diciamo così: fammi il piacere di smetterla. Gli chiediamo il piacere minimo di lasciarci in pace o quantomeno di cambiare discorso. Un piacere, quindi, per sottrazione. Anche gran parte dei piaceri «veri», che ci soddisfano pienamente (anche se, purtroppo, momentaneamente), sono della medesima natura. Quando mangiamo e beviamo ci togliamo la fame e la sete, quando dormiamo ci togliamo il sonno, quando facciamo sesso ci togliamo la voglia di sesso... E fin qui, tutto regolare, quasi banale. Però, pensateci un momento: quando preghiamo, o quando destiniamo il 5 per mille, oppure quando ascoltiamo un concerto di Mozart, come la mettiamo? In questi casi, togliamo o aggiungiamo? Dal punto di vista delle neuroscienze, non è un problema nostro. O meglio, lo è, ma semplicemente (si fa per dire) a livello del nucleus accumbens, della corteccia prefrontale, dello striato dorsale, dellamigdala, con la complicità, ovviamente, dellippocampo, lo scrigno che custodisce la memoria a lungo termine. Tutta roba nostra, che lavora incessantemente e silenziosamente nella nostra zucca e che il buon Dio o chi per lui ci concede il privilegio di mettere fra parentesi. Anche quando tiriamo di coca, o scoliamo una bottiglia di vodka, o ci bruciamo lo stipendio alle slot machine.
E qui casca lasino. Se possiamo ignorare il lavorío delle rotelle del nostro cervello, non possiamo ignorare la moglie che ci chiede il divorzio per uno o più degli ultimi tre motivi appena citati. Né lazienda che ci licenzia per la stessa ragione. Né i nostri amici che, a un certo punto, spariscono e non si fanno più sentire. Il problema del piacere, e della dipendenza dal piacere che gli è fedele compagna, è proprio questo: nel momento in cui diventa di dominio pubblico, sconfinando nel campo del «sociale», viene sottoposto al giudizio altrui, e nove volte su dieci diventa Peccato, Reato, Vergogna, Malattia.
Quando il terribile professor Hannibal Lecter (a proposito di piaceri criminali, tipo quello di mangiare carne umana ancora viva...) vuole mettere sulla strada giusta la dolcissima Clarice Sterling impegnata nella caccia al serial killer «Buffalo Bill», le dice che anche lui, il mostro, come tutti, «desidera». E che cosa si desidera? Ciò che non si ha. Ecco, David J. Linden, docente di Neuroscienze alla «John Hopkins University» di Baltimora (e sorvoliamo sul fatto che Hannibal Lecter nel film Il silenzio degli innocenti è detenuto nel manicomio criminale di Baltimora ed è impersonato da un Hopkins che di nome fa Anthony...), anche lui, lesimio professore, in La bussola del piacere (Codice Edizioni, pagg. 232, euro 23) è per noi come lintelligentissimo cannibale per la bella poliziotta: ci mette sulla strada giusta. Basta leggere il sottotitolo per capirlo: «Ovvero perché junk food, sesso, sudore, marijuana, vodka e gioco dazzardo ci fanno sentire meglio».
Linden ci trapana il cranio con la gentilezza di uninfermiera in minigonna, di quelle che si vedono in certi filmini porno, e dà una carezza ai nostri sensi di colpa, rassicurandoci, giurando e spergiurando che dopo la pioggia delle passioni viene il sereno della mediocrità. Lo fa parlandoci di montoni omosessuali, di alcolizzati inconsapevoli, di casino-dipendenti ostaggio della dopamina, di irresistibili merendine ipercaloriche, di devianze previste e quindi tutto sommato normali. Spiegandoci che persino il verme nematode C. elegans, un personaggino lungo un millimetro e dotato di appena 302 neuroni, possiede un circuito del piacere. Insomma, fa proprio (scientificamente, beninteso) il sublime aforisma di George Bernard Shaw: «Cosè la virtù se non il sindacalismo degli sposati?». Non si accomoda fra il pubblico, nellaula di tribunale dove si celebra il processo alle intenzioni, ma chiede la parola e sciorina un profluvio di attenuanti.
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