Prigionieri della democrazia Gli italiani deportati in Usa

Un saggio ricostruisce per la prima volta in modo completo le vicende delle decine di migliaia di soldati che gli alleati internarono oltreoceano

Prigionieri della democrazia Gli italiani deportati in Usa

Tanti, tantissimi. Sconfitti, a volte anche in modo umiliante, ma pure in un certo modo salvati. Messi ai margini, che si trattasse dei deserti del Texas o delle spianate vulcaniche delle Hawaii poco importa, eppure miracolosamente estratti da quel gigantesco tritacarne da settantuno milioni di morti che fu la Seconda guerra mondiale.
Ecco il destino dei prigionieri italiani deportati negli Stati Uniti d'America a seguito delle tremende sconfitte dell'Asse in Nord Africa e in Sicilia. Il lungo viaggio in nave verso «l'Arsenale delle democrazie» toccò a quasi 125mila uomini che, approdando sul suolo americano, andarono incontro ai destini più diversi. Decine di campi ognuno con la sua storia, la divisione (dopo l'otto settembre) tra irriducibili, non cooperanti e cooperanti, l'aiuto per molti della comunità italo-americana, il lavoro nelle aziende o nei porti per certi, la solitudine del deserto per altri... Il sogno del ritorno in patria per quasi tutti (ci fu anche chi si intestardì, a guerra finita, per restare negli Usa tra le ire del dipartimento immigrazione). Insomma, un'odissea dove le storie dei singoli si intrecciano, sino quasi a formare un lieto fine a stelle e strisce, però un lieto fine amaro e un po' stracciato, come una vecchia divisa consumata dal tempo.
Forse è per questo che gli storici della vicenda dei prigionieri in America hanno parlato poco. Dopo la guerra il tema non andava di moda, gli ex reclusi forse volevano dimenticarsene, provavano quel senso di vergogna (irrazionale e ingiustificato) che provano tutti quelli che sono finiti dietro un filo spinato dopo aver alzato le mani. E per quel poco che invece è stato raccontato, di norma, ci si è attenuti a due vulgate. La prima maggioritaria e democratica sintetizzabile così: chi finì negli Usa fu relativamente fortunato, andò lontano dalla guerra in un Paese che, anche per farsi propaganda, trattava i prigionieri in modo più che umano. Insomma una sorta di lunga vacanza. La seconda, schierata nella militanza di destra. che racconta soprattutto dei prigionieri del campo di Hereford che come irriducibili fascisti (molti non lo erano affatto - c'era anche un nutrito drappello che si dichiarava comunista - ma si sa che gli statunitensi non sono adatti alle sottigliezze della politica italiana) vennero sottoposti ad un trattamento molto duro, che culminò nell'affamamento e in una feroce bastonatura. In mezzo tra questi estremi però c'è un mondo variegato. Lo racconta bene nel suo nuovo volume lo storico Flavio Giovanni Conti: I prigionieri italiani negli Stati Uniti (il Mulino, pagg. 542, euro 28). Contemporaneista che si occupa da anni del tema della prigionia di guerra, Conti traccia per la prima volta un affresco completo sul tema, mettendone a nudo tutti i chiaroscuri. Da un lato, dal suo corposo saggio emerge con chiarezza che in generale i prigionieri italiani negli Usa furono trattati, dal punto di vista delle condizioni materiali, meglio di quanto fossero trattati i prigionieri in qualsiasi altra nazione. Merito di tre fattori: gli States erano lontani dal fronte, molto più ricchi degli altri belligeranti, e la comunità italo americana vigilò sul trattamento dei prigionieri.
Dall'altro, risulta con evidenza che Washington decise di fare a modo suo con i prigionieri, infischiandosene della convenzione di Ginevra. Secondo la Convenzione alla firma dell'armistizio prima, e ottenuta l'Italia la condizione di «coobelligerante» poi, i prigionieri avrebbero dovuto essere restituiti, dietro la stipula di un preciso percorso concordato. Gli italiani se ne «dimenticarono», gli americani preferirono tenersi in casa quella che era una forza lavoro a basso costo quasi indispensabile. E così moltissimi italiani si trasformarono in lavoratori semiliberi con la divisa dell'U.S. Army, le stellette dell'esercito del Regno, e la scritta «Italy» appiccicata al braccio.
Conti insiste sul fatto che a finire nei campi punitivi fu anche chi, pur non essendo fascista, non accettò questo strambo accordo non scritto che faceva di soldati, ormai alleati, manodopera sostitutiva (anche ben pagata e ben nutrita, ma gestita in un regime che con la legalità internazionale aveva poco a che fare).
Molto ben raccontato è anche il complesso rapporto tra la situazione dei prigionieri e la stampa, gli umori popolari. Il trattamento dei prigionieri peggiorò drasticamente, un vero paradosso, verso la fine della guerra. Un po' perché per la prima volta ci furono delle penurie nel mercato interno degli Usa, ma soprattutto perché venne scoperto l'orrore dei lager nazisti. L'opinione pubblica pretese a quel punto un inasprimento delle condizioni dei prigionieri dell'Asse visti come «colpevoli». Toccò anche, ingiustamente, agli italiani. Quando però si ebbero degli episodi di violenza grave, ne accadde uno a Fort Lawton nel 1944 dove venne linciato il soldato Guglielmo Olivotto, non ci fu premeditazione dall'«alto». I soldati neri della base irruppero armati di bastone nella zona italiana. Erano furiosi perché gli sembrava che i prigionieri fossero trattati meglio di loro. Il bilancio: tra gli italiani un morto e 24 feriti di cui alcuni gravi.

Ai soldati di colore un totale di 200 anni di prigione.
Insomma non fu l'inferno e non fu una vacanza. Fu la prima volta che centomila italiani venivano imprigionati nella democrazia e nel melting pot. E questo li cambiò, ci cambiò, per sempre.

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