Non si sa mai bene cosa si intenda con la parola «felicità», e non mi riferisco a cosa ne pensavano Proust o Leopardi: perfino un sopravvalutato come Alberto Moravia era arrivato alla conclusione che la felicità è impossibile perché «il solo fatto di avere un corpo è una forma di inquietudine». Figuriamoci la «felicità coniugale», i cui disastri sono sempre stati un oggetto narrativo molto interessante, una prigione psicologica da esplorare.
Una notevole specialista del genere si sta rivelando Yasmina Reza, già autrice de Il dio del massacro (da cui Roman Polanski ha tratto il bellissimo Carnage), e il suo nuovo romanzo, appena pubblicato da Adelphi, ha un titolo emblematico: Felici i felici (pagg. 163, euro 18). Non significa che chi si accontenta gode, altrimenti bastava il bicchiere di vino con un panino della felicità cantata da Al Bano e Romina. Piuttosto che la felicità del vicino è sempre più felice. Mentre la propria è sottoposta a tutte le leggi del mondo fisico, l'entropia vale anche per l'amore e la passione, alla lunga tutto, per noia o per routine, si decompone in quella trappola chiamata «coppia» e di conseguenza la «vita di coppia», spesso un incubo.
Molto carveriana nel suo snodarsi in una serie di short stories minimaliste agganciate l'una all'altra, la storia di Yasmina Reza è una tragicomica scatola cinese di personaggi ingabbiati in mondi chiusi, solo apparentemente comunicanti tra loro. Ciascuno con i suoi problemi, ogni coppia convinta che la coppia di amici sia felice, ogni coppia scoppiata e divisa in due singoli individui dimezzati, monologanti, soli, infelici. Le donne con i loro «risentimenti improvvisi, quando tutto si ferma, tutto si pietrifica», perché «approfittano di qualsiasi cosa per avvilirti, adorano ricordarti quanto sei deludente». Quelli che cominciano a chiamarsi «tesoro» e «dicono frasi del tipo stasera tesoro facciamo una buona cenetta». La terribile «contrizione dell'individuo per riuscire a essere in due, voglio dire non c'è mica più armonia e spontaneità nel tesoro facciamoci una buona cenetta, no, né minore è il baratro».
Tra l'altro non soltanto gli altri sembrano sempre più felici di noi, ma è provato come la nostra felicità sia fondata sull'infelicità altrui. Secondo Gore Vidal «Avere successo non basta. Bisogna prima che falliscano gli altri». Ambrose Bierce definisce la felicità «la gradevole sensazione che nasce dal contemplare l'infelicità». Vale anche l'inverso: la nostra infelicità è determinata dalla contemplazione dell'altrui felicità. Come i risultati di un noto esperimento nel quale un lavoratore scopre in busta paga un aumento del cinque per cento. È felice, finché non scopre che i suoi colleghi lo hanno avuto del dieci.
Infatti dal punto di vista scientifico la felicità è stata analizzata come illusione evolutiva: poiché dotato di autocoscienza e propensione all'infelicità, l'Homo Sapiens è l'unico essere vivente a averne fatto un'ossessione, un mantra. Nel Dna del nostro passato di animali inconsapevoli ci portiamo dietro dei circuiti neurali più sensibili alle emozioni negative che a quelle positive: l'inquietudine serviva a sopravvivere, la felicità a essere divorati. Sarà per questo che ogni favola finisce con «e vissero tutti felici e contenti», con quel pleonastico rafforzativo «e contenti», cioè, non ho mai capito: se uno è felice quale senso avrà essere anche contento? E sarà per questo che la religione prescrive di non desiderare la donna d'altri, e grazie al cavolo, è l'unica desiderabile, altrimenti il tradimento non sarebbe all'ordine del giorno.
Attenzione, non vale solo per l'amore, vale perfino per il denaro, e per le crisi economiche da cui ci sentiamo tanto afflitti. Gli psicologi David Myers e Ed Diener hanno analizzato i bisogni di felicità umana nei Paesi industrializzati e hanno osservato come l'asticella della felicità si alzi sempre di più. «Rispetto al 1957 gli americani hanno il doppio delle automobili per persona, e in più forni a microonde, televisore a colori, videoregistratori, condizionatori d'aria, segreterie telefoniche e scarpe da ginnastica di marca nuove per 12 miliardi di dollari l'anno. Allora, sono più felici del 1957? No».
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