L'unica regola per scrivere? Non darsi regole"

Chad Harbach, autore di "L'arte di vivere in difesa", attacca il mondo editoriale: "Creando una storia si deve star vicino solo ai propri personaggi..."

L'unica regola per scrivere? Non darsi regole"

Editor, agenti e fan (tra cui John Irving, Jonathan Franzen, il New York Times e la HBO, che si è comprata i diritti del primo libro per una serie tv) sono già preoccupati: se per scrivere il primo romanzo - 665mila dollari di anticipo - ci ha messo undici anni, quanto ci metterà a scrivere il secondo? Ma Chad Harbach, per ora ancora «esordiente» del Midwest, 35 anni, fondatore della rivista letteraria di culto n+1, non si scompone. Ha seguito il suo primo romanzo, L'arte di vivere in difesa (Rizzoli, pagg. 520, euro 20, traduzione di Letizia Sacchini) come ogni autore dovrebbe fare: due anni di tour in tutto il mondo. Il minimo. E ora è venuto a raccogliere i frutti anche in Italia, al Bottari Lattes Grinzane, Premio letterario in cui la storia di College e formazione del gracile Henry Skrimshander, che il baseball trasforma da anatroccolo in cigno e poi di nuovo in anatroccolo, è finalista e favorita.
Le sembra normale tutto questo successo con un libro sul baseball?
«Anch'io pensavo fosse un libro sul baseball, mentre lo scrivevo. Invece non lo era. E meno male perché anche se il baseball è così popolare negli Stati Uniti, ai lettori non gliene importa niente. Gli uomini amano il baseball, le donne amano i libri. Vuol sapere qual è il segreto per vendere un romanzo?».
Ovviamente sì.
«Editor e giornalisti e critici cercano la Coesione. Le parole chiave che fanno vendere un libro perché potrebbe piacere a tutti. Ma quando uno scrittore crea una storia, pensa solo a star vicino ai suoi personaggi. Quando mostravo il libro agli agenti letterari non ero un bravo venditore».
Che tragedia. Meno male che c'è il marketing.
«Il mio futuro editore ha detto: nessuno compra i libri sul baseball, tranne qualche professionista che spera in una dritta originale. Non diremo mai che questo libro parla di baseball. Diremo: “Amore”, “Fallimento”, “Percorso personale”. Allora mi sono accorto che il mio libro parlava di quello. È la storia di una persona che, come chiunque altro, deve combattere contro se stesso, i propri insuccessi, le ansie».
Basta con la crisi, dunque. Fuori le regole della lotta.
«Ci provo, ma è una cosa che un romanziere non deve fare: mai dare regole né risposte definitive. La prima è che se tu sei una persona curiosa e interessante è giusto che entri in crisi. La battaglia interiore è buon segno. Poi bisogna capire questo: la sfida non è mai una cosa personale. Quando Henry non riesce più a giocare con la solita precisione, cambia qualcosa nelle dinamiche tra lui e la squadra. Quando le cose cominciano ad andare male si pensa a se stessi invece che al bene del gruppo. La soluzione è tornare al principio: smettere di arrovellarsi su di sé, pensare che siamo parte di un tutto. E che le nostre azioni influiscono su questo tutto».
Sta scrivendo?
«Sì, ma non ne parlo per superstizione. Sono nel primo di quattro anni previsti di scrittura del nuovo romanzo. Troppo presto».
E intanto che fa, insegna?
«Faccio la bella vita, come pensano molti. Curo la mia rivista n+1. E un volume, che uscirà nel marzo 2014, che cerca di spiegare che cosa vuol dire essere uno scrittore di romanzi in America oggi. Pubblicare, guadagnarsi da vivere scrivendo, confrontarsi con un mercato: tutta roba di cui a scuola di scrittura non si parla».
Vasto programma.
«Siamo partiti da un mio saggio, che dà il titolo al volume: MFA versus NYC ovvero quanto ormai le scuole di scrittura creativa, i Master of Fine Arts - quasi 900 oggi negli Usa -, siano parte del Dna di ogni giovane scrittore americano in un modo che la critica snob non può comprendere. Questo ha creato due culture letterarie, in America: quella di New York e quella dei college di provincia, da Irvine a Tallahassee. Racconti contro romanzi; Amy Hempel contro Jonathan Franzen; Wonder Boys di Chabon contro Il diavolo veste Prada; la conferenza dell'Association of Writers and Writing Programs contro la Fiera di Francoforte; reading letterari contro festini autopromozionali. Ho coinvolto una serie di autori, curando che non fossero troppo popolari, tra cui George Saunders, Alexander Chee, pezzi editi e non di David Foster Wallace».
Immancabile.
«È vero che è in atto la sua deificazione, come ha scritto sul New Yorker Jonathan Franzen».
Non lo ha scritto per invidia?
«Jonathan è un tipo complicato...

Quello che penso è che l'influenza vera di Wallace sulla cultura americana si gioca su tono e metodo dei suoi saggi. Se io dicessi a un editore oggi: “Hei, qui c'è Infinite Jest, ora lo vendiamo a tutti!”, che cosa credete risponderebbe?».

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