Cultura e Spettacoli

Quelle città fantasma (ma visibilissime) di un pittore magico

Primavera 2010. Velasco Vitali sta completando Sbarco, l'intervento con cui i suoi cani occuperanno il Duomo di Pietrasanta. All'interno di un lavoro che è incentrato sulle possibilità che ha la scultura di raccontare lo spazio, e che riconosce il branco come un blocco narrativo unico, emerge a un certo punto la necessità di dare a ogni singolo cane un nome, come per dare profondità di campo individuale a un'identità in cui si condensano i temi dello spaesamento e della clandestinità. Una storia, insomma, che renda ogni cane riconoscibile pur nella persistenza del suo senso. Vengono così scelti i nomi carichi di suggestione di alcune città scomparse: Bannack, Suakin, Varosha, Pripjat.
Quello che sembra solo l'addentellato di un progetto, finisce nei mesi successivi per generare un risultato imprevedibile. La ricerca sui nomi appassiona sempre più l'artista bellanese, che assieme al suo collaboratore Francesco Clerici produce una vera e propria mappa mondiale delle città fantasma. Potrebbe ancora essere solo un elenco di toponimi evocativi, ma l'idea di vedere un luogo e immaginarne nel contempo il fantasma, la forma divenuta invisibile che aveva una volta, è per Velasco una chiamata in campo a cui non si può sottrarre. E così, mentre tutti lo immaginiamo concentrato nella chiusura del lavoro sui cani che ha definito la sua nuova identità di scultore, ricomincia invece a dipingere, scegliendo come soggetto proprio le città scomparse. Il risultato formidabile di questa nuova ricerca lo vedremo in Triennale, a Milano, a partire dal 17 luglio, nella mostra Foresta Rossa.
Si tratta di 21 grandi tele (la maggior parte 2,40x1,70), ciascuna delle quali è la rappresentazione antinaturalistica di una città scomparsa, a cui Velasco è approdato dopo aver assorbito l'immaginario che si condensa attorno a questi nomi. Ancora Francesco Clerici ha costruito infatti un piccolo racconto per ogni città, illustrando gli accadimenti naturali e le azioni umani che hanno prodotto il suo abbandono. Le vicende, raccolte nel catalogo (Skira) rappresentano un “atlante” esemplare di insostenibilità: in ciascuno di questi luoghi si è verificata una condizione, spesso paradossale, che ha interrotto la sua storia umana, consegnandolo a una condizione visionaria definitiva. E infatti attorno a queste città invisibili è rintracciabile in Rete una quantità enorme di materiale, che documenta utopie urbanistiche, disastri ambientali, catastrofi naturali, cambiamenti climatici o socioeconomici, esperimenti falliti di ingegneria demografica.
Velasco ha studiato fotografie e racconti, per poi però accantonarli, un attimo prima di cominciare a dipingere. Inizialmente ha prodotto piccoli quadri preparatori, tappe intermedie di avvicinamento al punto del progetto che gli interessava di più, la possibilità di rimettere in discussione trent'anni di lavoro sulla pittura su di un unico tema, ma per 21 volte: ciascuna delle tele che compongono Foresta Rossa è infatti come un nuovo inizio, tra un quadro e l'altro non ci sono echi o ricadute, come se ogni evocazione di città potesse costituire il momento germinale di un ciclo infinito, che però programmaticamente si esaurisce subito. «Mi interessava pensare a un'immagine sicura, capace di essere un simbolo forte che raccontasse quel luogo e quel fatto in maniera specifica e inequivocabile, ripercorrerne il sentimento attraverso la materia, come se ogni quadro fosse l'inizio di uno stile», spiega. «Sono dipinti fatti tutti a memoria: per ciascuno di essi il bozzetto era costituito al massimo da un tratto o una silhouette a matita. Non ci sono ombre, luci del sole, ambientazioni di tipo impressionistico. Sono fatti astratti, metafisici, risultati di visioni sognate, anche perché l'arte ti deve portare a vedere le cose del mondo da un altro lato».
Scegliendo un tema strettamente correlato con la saturazione dell'immaginario da parte della fotografia, Velasco sembra voler rimarcare la distanza che ha scavato tra sé e i suoi contemporanei. «Nella meccanica della pittura l'immagine fotografica ha avuto negli ultimi anni un ruolo determinante, imbrogliando chi la fa e soffocandone la coscienza.

Sono venute fuori scuole e schiere di pittori meccanici: nulla mi irrita di più che essere scambiato per uno di questi».

Commenti