Quello che ci rimane, tolto Dio

Il dramma delle conversioni "a rovescio" ci fa riflettere sul ruolo della Chiesa quando viene a mancare la fede. Il caso dello scrittore Ferruccio Parazzoli che abbandona il cristianesimo

Quello che ci rimane, tolto Dio

Scrittore cattolico per una vita, direttore di case editrici e collane d’ispirazione cattolica, firma di punta di Avvenire, Famiglia Cristiana e Jesus, vicino alla Conferenza episcopale e all’Opus dei, Ferruccio Parazzoli in età grave si è ribellato al cliché ma ha fatto anche di più, ha disdetto Dio. Si è allontanato dalla fede cristiana e dal monoteismo, e presumo dalla sua stessa vita di credente e praticante e ha scritto un libro, questa volta non un romanzo ma un saggio, dunque senza nascondersi nella finzione narrativa, dedicato al rovescio di una conversione. Il libro è intitolato Eclisse del Dio Unico (Il Saggiatore, pagg.156, euro 13), ma il titolo conserva ancora qualche traccia di fiducia: l’eclisse ingenera speranze - infondate in questo caso - che prima o poi torni la luce divina. Ricordo un saggio a due, scritto quarant’anni fa, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? di Augusto del Noce, che ne scorgeva l’eclissi epocale, e Ugo Spirito, che ne ravvisava invece il tramonto definitivo. Parlavano di valori tradizionali ma ruotavano intorno alla fede cristiana.
Il libro di Parazzoli lascia meno speranze e costeggia la perdita della fede e la morte di Dio, o meglio la sua eutanasia, che forse non esplicita nel modo diretto che gli attribuisce nella prefazione Vito Mancuso, ma certo vi gira attorno. Di quello «scisma sommerso» nel cuore del pensiero cristiano, di cui parlò alcuni anni fa Pietro Prini, Mancuso si presenta come il capofila, una specie di Lutero emerso che chiama a raccolta i diversi itinerari degli scismatici.
Ho rispetto delle conversioni e anche del loro rovescio, se sono il frutto sincero di uno spietato e tormentato ripensamento. E credo che questo di Parazzoli lo sia. Egli sembra inclinare verso una forma di panteismo, che rimpiange gli dei pagani ma avverte che a loro non si può più tornare, sono ormai irraggiungibili. Descrive il dissolversi del Dio unico e vede crescere quel che definisce, parafrasando Hegel, «la pappa del niente». In quella pappa è immerso anche lui, seppure a disagio. Ha vinto il nichilismo. Alla fine approda alla convinzione che l’esistenza di Dio coincida con l’esistenza del mondo, una forma implicita di panteismo: «Il mondo altro non è se non la vita di Dio». Scompare il Dio unico ma svanisce anche Gesù, supplente in terra e Suo Figlio unigenito. Gesù non basta più, il Dio personale, storico, che si incarna, scende nel tempo e poi risorge post mortem, sparisce dai pensieri di Parazzoli. Il Dio unico non è stato ucciso ma muore di morte naturale, forse anche stressato dai monoteismi e in particolare dall’ultimo in ordine di tempo, quello islamico. E con Dio muore anche l’uomo in rivolta, perché ha perso il Padre contro cui ribellarsi. L’uomo, avverte Parazzoli, non vuole più scommettere su Dio, come incitava Pascal, ma preferisce rischiare in proprio, a occhi aperti. E se anche Dio fosse un rischio, come scrisse ormai alla soglia dei novant’anni uno scrittore laico e scettico come Prezzolini?
Parazzoli non esplicita la sua rottura definitiva con la fede e con la Chiesa cattolica, forse per prudenza, forse per pudore, o perché agli addì tormentati non si addicono spettacolari conversioni a «U», gesti plateali e vistose retromarce. Del resto non c’è animus polemico in lui, c’è una disarmata perdita di fede: «Non abbandono Dio senza rendermi conto che non credo più in Lui» scrive, ma pur parlando in prima persona non si riferisce direttamente a se stesso, procede per esempi. La sua confessione è rifratta, paludata.
Lasciando sullo sfondo il quesito cruciale, la perdita della fede nel Dio unico, resta irrisolta una domanda: che ne è allora di Cristo e della sua sposa, che ruolo ha la Chiesa e cosa resta del popolo dei credenti? A questa domanda il testo di Parazzoli non risponde, restando nella dimensione agostianiana dell’interiorità (Noli foras ire...). Ma cosa resta dopo il disdio, equivalente teologico del dispatrio. Il disormeggio dal Dio unico e quindi il distacco dal cristianesimo? L’ossequio clericale all’Istituzione, il rispetto della routine o la perdita assoluta del suo ruolo e del suo senso? Se Dio coincide con il Mondo non c’è bisogno di nessun suo ministro di culto, nessuna mediazione ecclesiale, nessun pontifex. Dio è il mondo. Oppure dopo Dio, resta la Tradizione che si ispira a lui, e smette d’agire in Suo nome e agisce in Sua vece? Al di là della fede in un Dio unico e trascendente, c’è l’amor di Dio accumulato nei millenni da generazioni, c’è l’esempio luminoso e atrocemente vano di santi, martiri ed apostoli, c’è il rispetto umano per la fede umile e fervente di popoli devoti, di vecchi credenti, tua madre inclusa. È possibile che resti la Tradizione Acefala, senza la sua origine, come puro ordine spirituale, guida educativa e fonte di orientamento morale? O dovremmo, come già diceva Charles Baudelaire e più modestamente ripetono gli atei devoti, confidare in Dio a prescindere dalla sua (in)esistenza? Ricordo due Razzi folgoranti di Baudelaire: «Anche se Dio non esistesse, la Religione sarebbe sempre Santa e Divina». «Dio è il solo essere che per regnare, non abbia neanche bisogno di esistere».


Basterà alla Chiesa scoprirsi seguace del poeta maledetto, per continuare a regnare e ad avere una missione e basterà agli ex credenti o ai postcredenti come Parazzoli per continuare a praticare e continuare a vivere, scrivere e pregare all’ombra della Chiesa? Mistero della fede o miracoli dell’ateismo, il dubbio resta...

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