Di uno fra i più sagaci prosatori del secondo '900, Luigi Meneghello (1922-2007), esce la raccolta degli articoli che con cadenza mensile, nell'ultimo triennio della sua vita, egli affidava al supplemento domenicale del Sole24ore. Il genere a cui si attengono è quello della «variazione», vale a dire uno spontaneo susseguirsi di pensieri e memorie, volentieri aneddotiche, quali naturalmente insorgono sull'orizzonte della terza età, l'età dei bilanci e dei rimpianti. Allora il titolo del volume (introdotto da Riccardo Chiaberge, curato da Cecilia Demuro e Anna Gallia; Rizzoli, pagg. 321, euro 20) può suonare strano: L'apprendistato. Apprendista un ultraottantenne? Ci si dichiara immaturi per civetteria senile? Ma quanto a Meneghello, «l'apprendistato» è argomento del discorso che svolse a Palermo il 20 giugno 2007 nel ricevere la laurea honoris causa. Lì confessa: «Ho il senso di non aver ancora finito l'apprendistato: sono quasi al punto però», e si rifà all'esempio del padre, diventato bravissimo - non avendo quasi fatto altro in vita sua - nel tornire viti in officina. E di sé dice che, dal primo libro (Libera nos a Malo) in avanti, il proprio lavoro è come «un lungo apprendistato per portare ciò che scrive a pareggiare la potenza» di una originaria «esperienza, nei vari settori della vita che gli è capitato di attraversare». Una manualità umile e coerente scandisce e caratterizza l'intero suo viaggio nell'arte dello scrivere.
Riflessioni, memorie con aneddoti. L'esistenza di Meneghello si è bilanciata di regola tra due poli, la terra alto-vicentina di Malo (ci tornava due o tre volte l'anno) e l'Inghilterra di Reading, la «città rossa in riva al Tamigi», nella cui università il giovane professore italiano comincia presto a dare impulso alla diffusione della nostra cultura. E dunque, ora immettendo persone e materie nuove ora ripresentandone di già apparse in opere anteriori, queste pagine possono trasferirsi dal Veneto al Regno Unito e viceversa, dalla cerchia accademica al giro di coloro che Meneghello ritrova nei periodici soggiorni al paese. Ma dove queste «carte 2004-2007» ottengono il massimo effetto è in paragrafi come il XIV, che si avvia da un quesito: «La ragione e la luce, sono sorelle?», prosegue dubitando: certe cose «sembra di vederle più a fondo quando la luce è fioca, quasi si mescola col suo contrario» e dalla congettura fisico-metafisica si sposta alla memoria individuale ma con una clausola-corollario che di nuovo deborda nell'incerto, nel magico. Carte preziose, godibili da qualsiasi punto le si cominci a leggere. Tanti nomi noti vi si depositano: da Montale a Moravia, da Guttuso a Cassola, dalla Morante a Pasolini... L'ironia qui è di rigore, e il primo a esserne investito, si capisce, è lo stesso Meneghello. Ma non mancano eccezioni, episodi solenni. Borges è in visita a Vicenza sulla metà del decennio '80. Le «sgrinfie pietose dei suoi devoti» lo tengono prigioniero; ma ciò non impedisce che di quest'uomo dagli «occhi vuoti, nudi, viso inclinato verso l'alto» si colga «la stravagante bravura... nel senso di extravagant, cioè grandissima, fuori misura».
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