Il Re dei poeti maledetti tra torture, risate e follia

Nel 1870, lo scrittore morì a 24 anni per cause ignote Lasciava rime e prose riscoperte dai Surrealisti

Il Re dei poeti maledetti tra torture, risate e follia

Alla fine, tocca dargli ragione e affermare, proprio come lui voleva che noi lettori affermassimo: «Bisogna rendergli giustizia: mi ha molto rincretinito. Cosa avrebbe mai fatto, se avesse potuto vivere di più! È il miglior professore d'ipnotismo che io conosca!». Dopo aver ironizzato a modo suo sull'universo mondo e anche oltre, Dio incluso, anzi, in primis , dopo aver fatto a pezzi l'uomo inteso come genere umano, la triade di «lui» che compongono lui, cioè Isidore-Lucien Ducasse, il conte di Lautréamont e Maldoror, annichiliscono lui, che rincretinisce e che ipnotizza. Aggiungendo il tocco macabro della morte prematura, puntualmente verificatasi a Parigi in una camera d'albergo di rue du Faubourg-Montmartre al numero 7, verso le 8 di mattina del 24 novembre del 1870, all'età di 24 anni. Morte per cause imprecisate, ovviamente, non essendo le ricorrenti emicranie di cui soffriva con certezza addebitabili a un cancro al cervello.

Non poteva che essere imprecisata, la causa della sua morte, giunta a capo di una vita interamente avvolta dalla nuvolaglia sulfurea che il più maledetto fra i maledetti espirava rigettando il veleno inspirato. «Io voglio che la mia poesia possa essere letta da una ragazza di quattordici anni». Ecco, qui invece è meglio non seguirlo alla lettera. I canti di Maldoror sono roba pericolosa, da maneggiare con cura, liquido infiammabile con un bel teschio disegnato sopra. Diciamolo subito a scanso di equivoci. Chi scrive, pur maschio e over 14 (ma non di molto), li leggiucchiò sul finire degli anni Settanta, però la sua fantasia curiosa non raggiunse il potere della comprensione, come invece molti, incautamente, promettevano a quel tempo. Perché al simbolismo (di questo si tratta) si può pervenire soltanto dopo aver compiuto un sufficiente apprendistato nella realtà, e la realtà non aveva ancora finito di parlare. Riletti oggi, quando ormai nessun potere mostra un minimo di interesse per la fantasia , quei Canti , forse per deformazione professionale paiono all'ex adolescente un esotico e speziatissimo esempio di trattatistica morale, peraltro nel solco della tradizione francese, da La Rochefoucauld in giù. «Il più delle volte le nostre virtù sono soltanto vizi mascherati», dice il principe di Marsillac. «L'amore per la giustizia non è, nella maggioranza dei casi, che il coraggio di patire l'ingiustizia», sostiene il conte di Lautréamont. Non sono molto distanti, tutto sommato...

Certo, come sospetta Stefano Lanuzza, curatore di Maldoror e tutte le poesie del Nostro (apparso nel 2010 da Barbès e ora riproposto nelle Edizioni Clichy, pagg. 391, euro 10) le Poesie del Nostro, figlie dei Canti anche perché a loro posteriori, potrebbero essere un gioco di specchi architettato dall'autore per gettarci fumo negli occhi. «Al postutto, l'impressione è che il conclamato “ritorno all'ordine” del poeta si traduca in un esercizio sottilmente sornione: in una forma insolita di satira», scrive Lanuzza. Ma anche per Lautréamont la penna batte dove il dente duole e, senza spingerci a dire che a un certo punto il ragazzo abbia messo la testa a posto, è lecito pensare a una sua revisione della filosofia nichilista, pre-zarathustriana, in vista di un suo sviluppo costruttivo dopo la scrupolosa e lacerante opera distruttiva. Nei Canti , già il «rospo» e l'«arcangelo» sotto forma di «granciporro» e la muta arrendevolezza del ragazzino «Mervyn» avevano tentato di riportare lo scatenato, proteiforme Maldoror che ora è «sanguisuga», ora «polpo», ora «aquila», a più miti consigli. Senza successo, è vero, ma instillandogli il dubbio. Tant'è che nell'ultimo Canto , il sesto, egli promette a se stesso (dunque al conte di Lautréamont, dunque a Isidore-Lucien Ducasse) di imboccare nel prossimo futuro la strada del «romanzo».

Il Nostro non fece in tempo a sostituire l'invettiva del canto con la narrazione del racconto. Dopo essersi rotolato post mortem per alcuni decenni nella polvere dell'oblio venne riesumato da Breton, il papa del Surrealismo.

Così i suoi Canti ripresero il volo gridando come gabbiani impazziti diretti verso l'orizzonte di un nuovo-vecchio linguaggio. Il linguaggio che lui stesso aveva creato nei suoi deliri di impotenza. Il linguaggio che era, poi lo si capì, il vero, più alto obiettivo delle sue torture.

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