Il Re Sole? Sperperava più della Grecia di oggi

Al tempo di Luigi XIV le casse dello Stato erano un colabrodo. Poi qualcuno inventò il redditometro. Innescando la rivoluzione. E, a seguire, Napoleone...

Il Re Sole? Sperperava più della Grecia di oggi

«Lo Stato sono io!», diceva Luigi XIV, il Re Sole (1638 - 1715). Il suo Stato, la Francia, «non pagava né i banchieri, né i mercanti, dai quali aveva preso a prestito somme ingenti. Accordava a queste categorie sospensioni di pagamenti e scudi protettivi nei confronti dei loro creditori. Ma era un sistema che destabilizzava il commercio, fino al caos. Non circolava più denaro. Il credito si era volatilizzato. Il discredito, invece, galoppava. I traffici agonizzavano. I consumi erano ridotti della metà. Il popolo era affranto. I contadini affamati, messi davvero male...». L'analisi è nelle Riflessioni politiche sulle finanze e il commercio, dell'economista Nicolas Dutot (1684-1741). Citandola su Le Monde, Sylvie Arsever afferma che il quadro, pur riferendosi alla Francia di fine '700, calzerebbe a pennello anche alla Grecia o alla Spagna di oggi. Siamo grati all'articolista di non aver aggiunto l'Italia.
Dutot metteva il dito nella piaga. Il marcio stava nel fatto che il debito pubblico del Re Sole era un abisso (la causa scatenante erano le tambureggianti guerre di conquista e di grandeur) e che, invece di rimpinguare le casse, il sovrano insolvente faceva il gioco delle tre tavolette con i suoi creditori. La moneta forte, oro e argento, si era volatilizzata. Didot era uno scienziato, pioniere dell'economia quantitativa: aveva raccolto nella sua opera statistiche impressionanti sui prezzi e sui cambi. La sua teoria era che bisognasse iniettare nei mercati cartamoneta, più pratica dei pezzi metallici, per favorire la liquidità contante, propellente del commercio e del benessere. A patto che il valore delle banconote fosse salvaguardato dall'ancoraggio a un tesoro statale, e non ondeggiasse sul capriccio dei regnanti, com'era vezzo nell'antico regime. Per far fronte alle spese, il re si faceva prestare soldi a breve termine. Per ripianare il debito con gli interessi, tartassava la gente. Sul reddito, gravava la «ventesima»; sulla proprietà fondiaria, la «taglia»; c'erano poi i dazi, come quello sul sale; un residuato del medioevo era la corvée royale, un tributo in forma di manodopera prestata gratuitamente alla corona.
Il sistema faceva acqua perché ammetteva grandi evasori istituzionali. La nobiltà e il clero erano esentasse: porgevano omaggi e doni al trono, ma in maniera occasionale, saltuaria. Risultato: la mannaia fiscale calava sui soliti, la parte più attiva del Paese. Quale fosse il marasma del debito pubblico, è chiaro da un bilancio pubblicato nel 1760, sotto Luigi XV, successore del Re Sole: entrate, 286 milioni di lire francesi; uscite, 503 milioni, compresi 94 di interessi sul debito, un disavanzo da far sembrare una bazzecola il nostro tra Pil e deficit. Il rapporto era firmato da Étienne de Silhouette, controllore generale delle finanze. Era un tecnico con all'attivo uno stage in Gran Bretagna per studiare i metodi fiscali della concorrenza. Proprio dall'assetto inglese trasse il principio di spremere anche le categorie salvaguardate, aristocratici ed ecclesiastici. Escogitò un redditometro: si versava in base alla frotta di servitori, ai beni di lusso, alle proprietà terriere e persino al numero di porte e finestre che ornavano le facciate delle dimore. I monili andavano fusi in lingotti. Si trovò contro la casta intera, compresi intellettuali come Voltaire. Tenne duro otto mesi, prima di gettare la spugna, inseguito dai sarcasmi del bel mondo che, ancora una volta, l'aveva fatta franca.
Lo si tacciò di spilorceria, di mediocre piccineria. Il suo nome divenne sinonimo di robetta a buon mercato. Non si avevano i mezzi per farsi fare un ritratto a olio o un busto di marmo? Si ripiegava sulla silhouette, il profilo del volto ritagliato su un semplice cartoncino nero. Però, come spesso accade nella storia della tassazione, gli sopravvisse il suo improbabile tributo «sull'aria» che si poteva godere dalle aperture murarie. La tassa sulle finestre restò a registro anche dopo la rivoluzione libertaria. Le armate di Napoleone la diffusero in Italia. Da qui l'abitudine di affrescare false imposte sulle facciate, a salvaguardia del portafoglio del contribuente. Alle strette, la corona francese improvvisò altri puntelli contro la bancarotta. Tra questi, la vendita degli «uffici», le cariche pubbliche. I privati potevano diventare, a pagamento: agenti delle tasse; gabellieri, cioè addetti alla riscossione dei diritti doganali e delle imposte indirette sui prodotti colpiti, come l'alcol; tesorieri, ufficiali che versavano gli introiti nelle casse dello Stato. Il mix di pubblico e di interessi privati è ad alto rischio. Maneggiare un sacco di denaro altrui è un'occasione che fa l'uomo ladro. Gli addetti al fisco giocavano con la cassa. Riscuotevano il dovuto, ma si prendevano il loro tempo, facevano lavorare in proprio le somme, a usura, prima di cederle allo Stato. Dilazioni, sconti, favoritismi ad amici e parenti non si contavano. Se si aggiunge che i ministeri della marina e della guerra erano autorizzati dal re a presentare bilanci truccati per sostenere le campagne, il quadro è completo. Per far saltare i privilegi (e la testa del sovrano) ci volle la rivoluzione, da cui sorse l'astro napoleonico.
Il Bonaparte razionalizzò il debito statale, mettendolo a pareggio in tempi record. Il suo criterio era l'equa distribuzione del carico. Portò a regime il catasto, per gravare su fondi terrieri e immobili anche dei ceti immuni. La taxe de citoyen, sulla persona, era del valore di tre giornate lavorative. Noi sgobbiamo più di sei mesi l'anno, per placare il fisco. Tra le proposte odierne di risanamento, abbiamo la dismissione dei beni pubblici: caserme, litorali demaniali, aree inutilizzate. Napoleone fu un precursore, fatte salve le proporzioni che, nel suo stile, erano inaudite. Per finanziare le galoppate in Europa, l'imperatore vendette al presidente americano Jefferson la Louisiana, oltre 2 milioni di chilometri quadrati, un quinto dell'attuale territorio statunitense, 3 centesimi l'acro, per un totale di 11 milioni di dollari, che raddoppiarono con i gravami dell'estinzione del debito. Nell'Europa delle nazioni, degli imperi, delle rivoluzioni industriali, del colonialismo e delle guerre, nel duello tra Stato e debito pubblico entravano in gioco le banche centrali, con conflitti d'interesse impossibili da districare. I Paesi che, come il nostro, acquisivano unità territoriale e politica, ereditavano anche i deficit delle sparse membra dalla cui fusione erano sorti.
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«La mano che dà è sempre sopra a quella che riceve», diceva Napoleone. Che di banchieri e affaristi del soldo, pronti a prestare ai politici, pensava: «Il denaro non ha patria. I banchieri non hanno né patriottismo, né decenza. Il loro unico obiettivo è il profitto».
(3. Fine)

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