Non solo i critici italiani, ma anche i narratori italiani di successo hanno la straordinaria capacità di provincializzare tutto. Per dirne una, se passaste in libreria in questi giorni trovereste un libro meraviglioso: l'ultimo romanzo di Richard Ford, intitolato Canada, pubblicato da Feltrinelli (pagg. 424, euro 19) e purtroppo rovinato da una fascetta di Niccolò Ammaniti che dice «Richard Ford ha fatto un miracolo, si è reincarnato in un adolescente degli anni Sessanta e ha raccontato la provincia americana come pochi hanno fatto prima». Uno pensa: vabbè, non devo partire per Vancouver, chissenefrega.
Anche Sandro Veronesi, sul Corriere della Sera, non è da meno: dopo avervi raccontato la trama per filo e per segno, vi raccomanda Ford per «i ritratti che fa dell'America». In pratica scambiano i romanzi per guide del Touring, se scrivessero di Delitto e castigo direbbero che è un bellissimo romanzo sulla provincia russa, mentre Madame Bovary ti racconta la provincia francese come pochi altri. Fossero nati a Viterbo, Raskolnikov non avrebbe mai ucciso la vecchietta e Emma non si sarebbe trombata nessuno. Per non parlare di Dickens: come ti racconta la provincia inglese Dickens, ah, signora mia, neppure Beppe Severgnini.
Ho citato Dostoevskij, Flaubert e Dickens perché Ford può stare tranquillamente vicino ai giganti, e qui, ambientazione americana a parte, che potrebbe pure svolgersi a Prato senza trasformare l'autore in Edoardo Nesi, Ford affronta un tema delicatissimo, universale e perfino scientifico: come le cose, e con esse le nostre vite, possano subire le svolte più drammatiche da eventi apparentemente insignificanti.
È un romanzo possente e malinconico sul paradiso perduto di una famiglia spazzata via per una sciocchezza che, per effetto valanga, scatena una tragedia. Con due genitori che negli anni Sessanta, di punto in bianco, per necessità economiche, rapinano una banca e finiscono in galera. Ma questa trama spicciola ve la sintetizza tutta Ford nelle primo paragrafo, e il bello è che il libro inizia lì, dando vita a un'opera struggente, appassionante, infinitamente poetica e raffinata. Nella quale la voce narrante, Dell Parsons, è all'altezza dei personaggi adolescenti della storia della letteratura: da David Copperfield a Huckleberry Finn.
È la storia banale di una normalità familiare che va in frantumi, vivisezionata in modo geniale dal punto di vista di un ragazzo perché «i ragazzi, sulla normalità, la sanno più lunga di chiunque altro». È un'educazione sentimentale traumatica e la conoscenza precoce della solitudine, che è come «una lunga coda in attesa di arrivare allo sportello dove hanno promesso che succederà qualcosa di buono. Solo che la coda non si muove mai, e gli altri ti passano davanti, e lo sportello, il posto dove vuoi arrivare, è sempre più lontano, finché perdi la speranza che abbia qualcosa da offrirti».
Dopo aver concluso la trilogia di Frank Bascombe con Lo stato delle cose, Ford si conferma un grande scrittore che vi parla di come le nostre scelte siano determinate da eventi a catena su cui abbiamo un controllo molto parziale. Significativamente il protagonista, prima di essere travolto dagli eventi insieme alla sorella gemella, voleva diventare apicultore e giocatore di scacchi, due metafore di un ordine inesistente. In fondo nella vita «non può esistere alcunché di unico e d'intero che non sia stato strappato».
Vi parla di come sia impossibile riconoscere gli eventi che cambiano il corso di ogni «destino» se non a posteriori, portando chiunque al punto di non ritorno. E tutta la prima parte del libro si snoda come un fiume lento e scintillante in una dettagliata, fantastica analisi di questo punto di non ritorno: come sono arrivate due persone normali, addirittura i genitori, una famiglia comunissima, a diventare due rapinatori? Ogni pagina è commovente perché è una voce emotiva in bilico sulla fine dei sogni e il precoce impatto con la realtà, perché si diventa adulti quando si capisce che «i fatti non sono quelli che inventi».
È per questo che quando si domanda ai bambini cosa faranno da grandi non li prendiamo sul serio, perché i bambini non fanno i conti con la realtà del mondo. È per questo che sono felici, e è per questo che li cresciamo con le favole. Sappiamo che «la vita, per essere vivibile, comincia a aver bisogno di bugie».
Un capolavoro che è già un classico e poi, per carità, come dicono Ammaniti e Veronesi, vi racconta anche il Canada. E anche il Montana e il North Dakota, se è per questo.
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