Quando uno scrittore scrive troppi capolavori, come David Foster Wallace, gli si rimprovera di essere troppo ambizioso. Quando non è ambizioso ma scrive molti romanzi di alto livello, gli si rimprovera di non aver scritto capolavori. Un esempio fra i tanti è l'accusa di Maria Russo sul New York Times a Joyce Carol Oates: troppo prolifica.
Per carità, dal nome e dal cognome la Russo sarà di origine italiana, magari è la nipote emigrata di La Porta, o la zia di Berardinelli, ma non è che la Kakutani quanto a spocchia sia molto meglio, quindi forse tutto mondo è paese, almeno nelle terze pagine. In ogni caso a avercene, qui da noi, di Joyce Carol Oates. Questa settantacinquenne allampanata, fantasmatica e piena di energia, che twitta pure le sue foto con Muhammad Ali. Non scriverà capolavori assoluti, ma romanzi assoluti sì, e se è per questo neppure Jane Austen ha scritto la Recherche.
Inoltre, vi dirò di più: se La donna del fango, appena edito in Italia da Mondadori (pagg. 432, euro 20), l'avesse firmato Cormac McCarthy, si sarebbero genuflessi tutti. Il libro si apre con l'atmosfera dell'America spettrale delle paludi del Black Snake River. Lì un giorno viene ritrovata una bambina abbandonata e mezza morta, sotto un vorticare di corvi. È il luogo in cui tornerà ossessivamente con la memoria, e poi fisicamente, in una fuga spericolata, l'adulta Meredith «M.R.» Neurkirchen, diventata rettore di una università dell'Ivy League, alle prese con le sabbie mobili della propria vita professionale e sentimentale.
È vero, come in altri romanzi della Oates, tutto sembra trascinarsi con lungaggini inutili e girare in tondo alla ricerca di un senso della vita. Che, come ormai sa anche Vasco Rossi, un senso non ce l'ha. Sarà per questo che la Oates possiede l'X-Factor standard dei grandi narratori moderni americani, da Carver a Ford, da DeLillo a Roth: rendere romanzesco il vuoto conclamato della quotidianità. Nella quale il lavorìo dei pensieri è sempre un modo più o meno riuscito di ignorare l'evidenza: «come Nietzsche aveva così acutamente osservato, la devastazione era stata ignorata. Negata. La consapevolezza della posizione della terra nell'universo era entrata nella zona cieca dell'oblio». Così perfino per vivere l'amore più o meno spensieratamente ci vuole una certa dose di oblio. Sia nell'amore sentimentale (per un amante segreto), sia in quello ricevuto dai genitori (adottivi). Non meno problematico, a pensarci: «I suoi anziani genitori, che avevano investito tanto su di lei. Il loro amore la opprimeva come un pesante mantello, o uno di quei grembiuli di protezione contro i raggi X che il dentista fa indossare al paziente: si è contenti di metterlo ma ancor più di toglierlo». Io non saprei immaginare altrimenti i romanzi della Oates: noiosissimi e bellissimi, affascinanti perché costruiti di una noia ipnotica e sottilmente elettrica, dentro solide strutture narrative a spirale che si muovono verso un centro simbolico che lentamente svapora.
La donna del fango è per altri versi un libro molto americano, con una spruzzata di religiosità quacchera e con questa fissazione per le origini mitiche da ritrovare nell'infanzia e nella terra dell'infanzia. Dove ci sarebbero le radici, i traumi, il peccato originale, il senso finale. Una mania coltivata pure dai cattolici europei, ma in giardinetti più intellettualistici: in genere non ci pensano mentre vanno al lavoro, da noi al massimo è un editoriale di Vittorio Messori sul Corriere della Sera. Per fortuna la Oates non cade mai nella retorica consolatoria, altrimenti sarebbe la Tamaro o la Baricco.
Anzi: mettendo le mani nel fango della memoria per disseppellire una verità, ci si sporca, e allora la mancanza di ordine fa da contraltare all'illusione umana di un paradiso perduto. Gratta gratta, pagina dopo pagina, sotto il ricordo mitico di una madre biologica invasata dal Signore c'è una vecchia rimbambita in clinica psichiatrica. Il passato, l'idea di un'origine da ritrovare per ritrovare se stessi, serve a sopportare «il silenzio e la vastità del cielo, che è intatto, infinito, insondabile, e non ricorda niente di lontanamente umano». Allora l'eterno problema è proprio «lo sforzo di rimanere umani».
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