La «sacerdotessa del pois» ha viso di porcellana, occhi a mandorla e 73 anni. È stata una ragazzina sfacciata, ha lasciato presto casa e il Giappone, ha avuto successo, partecipato a due Biennali, organizzato happening dall'alto tasso erotico cui tutti gli hippies newyorchesi (artisti, giornalisti, galleristi) ambivano essere invitati. Poi è scappata via, in perenne compagnia delle sue nevrosi: dal '77 vive in Giappone in un ospedale psichiatrico dove continua a produrre la sua arte «psicosomatica» e dove, con la complicità di Marc Jacobs, direttore artistico Louis Vuitton, l'anno scorso ha concepito per la maison francese le vetrine dei più importanti punti vendita e una linea di abbigliamento e accessori. A pois, ovvio (e subito di culto).
Unica e inafferrabile, Yayoi Kusama. Che la sua vita abbondasse di materiali per un'autobiografia non vi erano dubbi ma ora, a leggersela nella sua spiazzante sincerità, ha un effetto dirompente. Pubblicata in Giappone nel 2002 e ora tradotta in italiano, s'intitola Infinity Net (Johan&Levi, pagg. 192, euro 23) come le opere che hanno reso Kusama celebre in tutto il mondo. Sono tele e oggetti decorati di reti che si allargano all'infinito, anche negli spazi circostanti e persino sul corpo dell'artista, attraverso miriadi di particelle (rosse, gialle o verdi) sottoposte a minime variazioni di ritmo o cromia. Il volume sarà presentato giovedì al Museo di Arte contemporanea di Lissone in occasione de un'esposizione di opere dell'artista provenienti da collezioni private («Yayoi Kusama. Biografia infinita», fino al 22 dicembre).
Nell'autobiografia Kusama narra di come, squattrinata e sola, sia arrivata a New York trovandosi un Sam Francis ancora sconosciuto come vicino di casa: niente latte per colazione e solo castagne a pranzo, per risparmiare. «Perché dipingi sempre le stesse cose?», le chiedono gli amici. E lei a spiegare che concepisce l'arte solo come espressione del suo mondo, che quello che ritrae su tele, stoffe, oggetti e corpi nudi è «il candido nulla di una rete tenuta insieme da un corpo celeste di gocce». Sono gli anni dell'Action painting e Kusama, con la sua calligrafia rotonda, va da un'altra parte.
Ossessiva e maniacale, vede New York come un inferno, ma è l'inferno a salvarla: la città non resta indifferente davanti a questa minuta giapponese dai capelli lunghi che esorcizza la paura di vivere attraverso infiniti pois. Negli anni Sessanta arriva il successo. La galleria di Leo Castelli la apprezza, Andy Warhol la stima (e forse invidia perché è contornata da giovani omosessuali che la chiamano «sister»), Lucio Fontana la porta a Venezia, Dino Buzzati la ammira, a Milano, alla Galleria del Naviglio. Kusama nel frattempo si dedica alle celebri «soft sculptures», che riproducono organi sessuali maschili, una delle sue tante fobie. A New York è considerata la «regina degli hippie» grazie alle performance artistiche che organizza con uomini e donne nudi e in atteggiamenti inequivocabili: tutti vogliono i suoi vestiti decorati a pois, tutti reclamano i puntini dipinti sulla pelle. Flash di fotografi e fiumi di articoli: in pochi capiscono che queste performance non sono provocatorie ma feroci, assolute, vere. Kusama non finge: la sua arte è davvero il frutto di allucinazioni e per lei i critici coniano il termine «obsessional artist», l'arista delle ossessioni. Nel '75 sta peggio del solito e torna in Giappone.
I sedici anni americani sono cancellati d'un soffio: continua a lavorare, compulsivamente, alle sue «nets», ma dal '77 sceglie di farlo in uno studio a due passi dalla confortante calma dell'ospedale psichiatrico di Seiwa dove ha scelto di soggiornare.L'anno scorso ha rotto l'isolamento portando i suoi pois nelle vetrine fashion, in mondovisione: l'ennesimo esorcismo di questa sacerdotessa del contemporaneo.
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