Ritratto di famiglia con tristezza

Il «punto di rottura» di cui parlava Francis Scott Fitzgerald manda in frantumi un'esistenza tranquilla

Ritratto di famiglia con tristezza

Un romanzo che commuove, che incanta, che lascia la finzione della narrativa senza abbandonarsi al «realismo sporco» di tanti scrittori. Una perfetta felicità di James Salter (Guanda, pagg. 368, euro 18,50, traduzione di Katia Bagnoli), ci porta ai confini dell'esistenza e, soprattutto, a come dovrebbe essere. Un incanto del disincanto. Una fede cieca, mai furiosa, che attraversa la deriva dei sentimenti dei protagonisti, travolgendo la nostra.

James Salter, considerato tra i maggiori scrittori americani contemporanei, oggi quasi novantenne, ha scritto questo romanzo nel 1975: eppure la sua voce letteraria ci giunge quanto mai attuale, con uno stile di scrittura che rasenta la perfezione. A parte le prime venti pagine, che si possono comprendere nella loro forza soltanto rileggendole a libro terminato, Salter ci consegna il ritratto di quello che è ancora il fulcro della cultura americana: la famiglia. Certo sullo sfondo c'è sempre il fallimento dell' american dream , di quei valori ormai continuamente corrosi dalla modernità, ma in questo romanzo, anche nei suoi passaggi più amari, persino nel tragico epilogo, si respira la vita. Di Salter - autore di sei romanzi, due antologie di racconti, una di poesie e quattro di non-fiction - Una perfetta felicità è il miglior libro. Se in Italia abbiamo conosciuto l'autore con Un gioco e un passatempo (Bur Rizzoli, 2006), ma soprattutto lo scorso anno con il plurincensato Tutto quel che è la vita (sempre Guanda), è con Una perfetta felicità che scopriamo come Salter sia uno degli ultimi segreti da conoscere della grande letteratura americana.

Basti citare il titolo originale, Light Years , per comprendere che quelli che descrive sono «anni luminosi»: per niente o quasi venati da quella «nostalgia» che per il New Yorker è bastata a stroncarlo definendolo un writer's writer , uno scrittore per scrittori. Nessuna nostalgia, ma poesia del vivere, il reclamo di chi ha voluto vivere la propria vita fino alla fine, anche con il rischio di guardarsi attraverso un vetro infranto. Quella che ci racconta Salter è una famiglia americana: madre, padre, due figlie piccole, un cane. I protagonisti sono Viri, un architetto colto e spesso trasognante, mentre la moglie Nedra è apparentemente più frivola e al contempo più forte e dotata di fascino carismatico (come tutte le donne descritte nei libri di Salter). Una coppia della borghesia newyorchese che vive in una villa vittoriana sulle sponde del fiume Hudson. Pagina dopo pagina, da questa «perfetta felicità» siamo spinti a quello che Francis Scott Fitzgerald definirebbe the crack up , il punto di rottura, con la differenza che oggi, come scrive Salter «il crollo è più nascosto, deve raggiungere un certo livello prima di infrangere la superficie, perché i pilastri comincino a cedere, le facciate a sbriciolarsi».

Salter è chiaro: «Non esiste una vita completa. Esistono solo frammentazioni. Siamo nati per non possedere niente, perché tutto ci sfugge tra le dita. E tuttavia questo sfuggire tra le dita, questo fiume d'incontri, di lotte, di sogni... meglio non pensare, come le tartarughe. Meglio essere risoluti, ciechi». Un'amarezza che diventa una scelta e poi una via di fuga da «una perfetta felicità»: «Siamo stati morigerati, non sapremo mai com'è dissipare la propria esistenza...». Da qui il punto di rottura. Nessun approdo. Marito e moglie finiscono per separarsi, ma con la consapevolezza che «i figli sono la nostra messe, i nostri campi, la nostra terra. Sono uccelli lasciati liberi nell'oscurità. Sono errori rinnovabili. Eppure, sono l'unica fonte da cui si possa ricavare una vita più riuscita, più consapevole della nostra. In un certo senso essi faranno qualcosa in più, un passo avanti, vedranno la cima. Noi ci crediamo, nella radiosità che emana il futuro, dai giorni che non vedremo. I figli devono vivere, devono trionfare».

Perché, se da una parte Salter scrive che «viviamo nella menzogna, circondata da testimonianze che lo provano», dall'altra sottolinea come l'amore per i figli sia l'unico amore che non si consuma e non svanisce: «Le loro vite sarebbero state in ascesa mentre la sua declinava, loro avrebbero portato dentro di sé la sua devozione come una specie di sapienza che corre nel sangue. Sarebbero stati giovani per lui, avrebbero indugiato, passeggiato al sole, parlato con lui fino alla fine». La nostalgia è soltanto apparente. E anche se dovesse esistere non è la sensazione che si prova a leggere questo capolavoro di poesia, di scrittura, di vita. Salter ha messo soltanto nero su bianco ciò che tutti viviamo e che in molti non vogliono capire.

Che la «perfetta felicità» è il rendersi conto che non esiste, che la perfezione è una chimera, che la felicità non è ieri, ma domani. E in questo risiede anche la grandezza e l'impegno civile di questo grande romanzo americano.

Twitter @gianpaoloserino

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