SAGGISTICA

È stata soprattutto italiana la fortuna dello storico tedesco-americano George L. Mosse, uno dei maggiori studiosi della seconda metà del Novecento. Dopo una ricezione dei suoi studi da parte del mondo accademico inizialmente abbastanza difficile, Mosse finì per diventare una vera e propria “moda” storiografica. Piacquero, anche a un pubblico assai più vasto di quello degli storici di professione, il suo approccio “culturale” allo studio dei processi storici e l’attenzione riservata non tanto ai sistemi filosofici quanto piuttosto ai miti, ai simboli, alle visioni collettive, razionali e irrazionali, alle «religioni politiche» e alle modalità con le quali tutto ciò era stato percepito e interiorizzato dalle masse nella prima metà del secolo scorso.
Alla costruzione di tale fortuna storiografica e di una parallela popolarità mediatica contribuì molto Renzo De Felice che aveva conosciuto Mosse nel 1967 in occasione di un convegno internazionale sulla storia del fascismo tenutosi in Gran Bretagna presso l’Università di Reading. In quella occasione lo storico italiano - che aveva già pubblicato i primi due volumi della biografia di Mussolini e stava affrontando ormai i temi della costruzione del regime e del consenso - fu colpito dalla relazione del collega tedesco-americano. Questi aveva detto esplicitamente che il fascismo non era un movimento nichilista e non si era imposto a masse popolari inermi: esso si era invece affermato come portatore di un «atteggiamento mentale» che fondeva pensiero colto e pensiero popolare e costituiva la base della sua ideologia e della sua cultura. In altre parole, Mosse aveva così additato un percorso e un metodo di indagine storiografica che prendevano in considerazione anche l’irrazionale, i miti, le simbologie, i riti del fascismo, tutto ciò, insomma, che finiva per conferire a questo movimento politico e a quelli similari il carattere di vere e proprie «religioni secolari».
De Felice - che, prima di dedicarsi allo studio del fascismo, si era a lungo occupato del «misticismo rivoluzionario» dei giacobini italiani, delle loro pulsioni e propensioni o derive totalitarie - vide nell’attenzione di Mosse ai fenomeni e alla dimensione culturale della storia un avallo al percorso che egli stava seguendo. Non è un caso che, nelle pagine introduttive al terzo volume della sua biografia di Mussolini, quello dedicato a L’organizzazione dello Stato fascista, De Felice citasse esplicitamente le intuizioni del collega sulla fondamentale influenza esercitata su Mussolini da Georges Sorel o Gustave Le Bon, cioè da studiosi del mito e della psicologia delle folle. Gli sembrava, dunque, che quelle intuizioni servissero a spiegare meglio l’evoluzione in senso «carismatico» del mito del Duce e l’aggregarsi del «consenso» attorno a Mussolini e al regime e che, alla fin fine, costituissero, anche se implicitamente e inconsapevolmente, una risposta a quella vecchia storiografia - sempre più ideologizzata, sclerotizzata e virtuistica - in alternativa, se non in opposizione, alla quale egli stava portando avanti il suo lavoro di studioso del fascismo.
Dalla stima all’amicizia personale il passo era breve e fu proprio De Felice a volere la traduzione italiana del volume La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), all’origine della notorietà di Mosse in Italia: una notorietà giunta fino al punto che l’espressione contenuta nel titolo divenne una locuzione utilizzata persino nel linguaggio giornalistico per definire taluni processi politici.
Era il 1975. Altri lavori pur importanti di Mosse erano stati pubblicati nel nostro Paese (a cominciare dal bel volume, scritto insieme con H. G. Koenigsberger su L’Europa del Cinquecento, tradotto nel 1969), ma fu senza dubbio questo libro - che presentava la «nazionalizzazione delle masse» come un processo di «invenzione della tradizione» e che affrontava il tema della «sacralizzazione della politica» - a costruirne l’immagine, peraltro più che giustificata, di profondo innovatore degli studi sul nazionalismo e sui movimenti di massa. Seguirono, poi, altri volumi che ne rafforzarono questa immagine: da Intervista sul nazismo a La nazione, le masse e la nuova politica, da Sessualità e nazionalismo alla riproposizione di Le origini culturali del III Reich fino agli studi su Il razzismo in Europa e via dicendo.
Il rapporto privilegiato di Mosse con il biografo di Mussolini fu testimoniato da tanti fatti, primi fra gli altri la sponsorizzazione che questi ne fece per fargli assegnare il Premio Prezzolini nonché gli inviti a convegni e iniziative importanti. Nel 1986, però, quando Mondadori pubblicò la traduzione di La cultura dell’Europa Occidentale, De Felice in una articolata intervista che rilasciò proprio a chi scrive, ribadì l’importanza delle ricerche mossiane che avevano «dato razionalità a taluni fenomeni storici ai quali prima era stata negata», ma sollevò qualche riserva sulla interpretazione del fascismo come fenomeno generale. Aggiunse che le idee di Mosse discendevano dal fatto che questi aveva «accentrato le sue ricerche sul nazionalsocialismo» e che apparteneva a quelle persone che avevano «vissuto la guerra mondiale lontano dall’Europa (e a maggior ragione gli ebrei)» e che erano state «portate inevitabilmente a farsi suggestionare da una propaganda di guerra che identificava i due regimi e che, se individuava qualche elemento di differenziazione, lo faceva solo sul piano dell’efficienza distinguendo tra il serio e il buffone». De Felice aggiungeva che «in qualche modo queste prevenzioni» erano «rimaste anche in una persona dell’intelligenza e della cultura di Mosse». Qualcuno volle vedere in questa intervista una rottura che in realtà non c’era. Lo stesso Mosse ne rimase colpito e meravigliato. Ma la verità è molto semplice. De Felice, ormai alle prese con gli ultimi tomi del suo lavoro, si era sempre più convinto della «particolarità» del fascismo come fenomeno nazionale e aveva fatto o rinnovato altri incontri intellettuali, che non sostituivano quello con Mosse, ma che vi si aggiungevano o, al più, lo correggevano: dal liberalismo di Isaiah Berlin al realismo storico di Gioacchino Volpe mutuato attraverso Rosario Romeo fino a François Furet che fu il suo punto di riferimento e interlocutore finale.
La fortuna italiana di Mosse è stata paragonata da un giovane studioso, Donatello Aramini in un recentissimo volume dal titolo George L. Mosse, l’Italia e gli storici (Franco Angeli, pagg.

272, euro 30), a quella che nel nostro Paese ha arriso allo storico marxista inglese Eric J. Hobsbawm. E sotto un certo profilo è vero. Ma quanta e quanto grande è la differenza tra un innovatore, come Mosse, e un brillante e caustico marxista che non vuol fare i conti con la Storia!

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