Una Santacroce per due diavolesse

Una Santacroce per due diavolesse

Come mai in Italia i romanzi più ambiziosi hanno regolarmente vita difficile e storie editoriali simili a percorsi di sopravvivenza? Non c’è solo Antonio Moresco e i suoi Canti del caos, abbandonati da Feltrinelli e da Rizzoli prima di essere accolti da Mondadori. A Riccione, per esempio, in una solitudine dickinsoniana, in un’Italia culturalmente provinciale dove se non sono vecchi critici rimbambiti sono giovani TQ ancora più rimbambiti e neppure tanto giovani, c’è Isabella Santacroce. Zitta zitta, o meglio asserragliata in un silenzio dannato tutto suo, ha appena portato a termine una trilogia romanzesca di oltre un migliaio di pagine: dopo V.M. 18, pubblicato da Fazi, e Lulù Delacroix, uscito per Rizzoli, Amorino arriverà in libreria con il marchio Bompiani il prossimo 14 marzo.
Meravigliosamente visionaria, teneramente poetica, spesso irresistibilmente comica, Santacroce ha perfino il vizio, intollerabile in un Paese di fotocopiatrici viventi, di non riscrivere mai lo stesso libro e fondare di volta in volta un nuovo genere. Vademecum per chi adora i comparativismi: se V.M. 18 era un inferno sadiano e Lulù Delacroix un paradiso carrolliano perfino più bello dell’Alice di Lewis Carroll, Amorino è il purgatorio dantesco riscritto da Laclos ma con lo spirito di Lawrence Sterne.
Malgrado tutta la distanza di pensiero che, come scrittore, mi divide da lei e dal suo delirio mistico cristiano (non a caso si chiama Santacroce, e però non capisco perché i cattolici non ne vadano pazzi, cioè: come è possibile che sia più odiata lei di me?), non posso non vedere che in Italia della statura artistica di Santacroce non vedo nessun’altra. Se amate la poesia Isabella è poesia pura, se amate la letteratura è letteratura pura, se non amate niente e odiate tutto allora potete amare me ma io, da parte mia, non riesco a non leggerla e di conseguenza a non amarla.
Così all’improvviso ci troviamo sbalzati nel 1911 a Minster Lovell, «un villaggio incantato dal fiume che lo attraversa», in un’opera divisa in sette corali liturgici e composta di materiali apparentemente eterogenei: serrati scambi epistolari, pagine di diari strazianti e esilaranti, qua e là stralci del libro «I segreti di Minster Lovell» di un certo dottor Thompson, una polifonia di punti di vista che avrebbe provocato un orgasmo a Michail Bachtin. Al centro di Amorino, che è il nome del coro dove canta la comunità di Minster Lovell e il nome di una bambina scomparsa (e anche «un libro spiritico» e «un chiodo conficcato»), ci sono due gemelle inquietanti come sempre sono i gemelli nei libri e nei film. Sospettate di aver ucciso i propri genitori morti suicidi, piantano coltelli nella schiena degli amanti come in un horror giapponese ma respirano della poesia perversa di cui è capace la Santacroce, perché «ogni gemito è una morte assassinata» e «l’orrore a volte è l’unica salvezza, così possente da ridurre in ossa i turbamenti».
Si chiamano Annetta e Albertina Stevenson, si scrivono l’un l’altra come dannate, sono «le gemelle della disperazione dolce», «due peccati che camminano». Molto desiderate, loro come Miss Frinks e le altre figure femminili, da Padre Amos, il prete stupratore di Minster Lovell, magnifica figura dostoevskijana, «il corpo robusto, un volto di grasso», la sua voce «un buco scavato dai suoni», «un’onda di carne nel nero del nulla».
Quando Isabella Santacroce piomba in prima persona lì a Minster Lovell per scavare la sua opera dall’interno, si presenta subito: «Forse sono una bambina spaventata che gioca con l’alfabeto o forse sono una bambina spaventosa che cerca di distruggerlo». «La verità è profonda. Devo scendere ancora per guardarla». «Io scrivo il vostro suicidio». E infine, semplicemente: «Ciao mi chiamo Isabella».
Ma quindi qual è il vero segreto di Minster Lovell? Quale fine è toccata alla piccola Amorino? Mi dispiace ma lo saprete solo leggendo il romanzo, visto che oggigiorno non si fa che parlare di donne e meritocrazia e in letteratura c’entrano poco le quote rosa e contano molto i risultati, ecco: la trilogia di Desdemona Undicesima, questa «nuova divina commedia», è un risultato oggettivo, perché non è letteratura femminile, è letteratura.

Allora sarebbe bello se la Bompiani, dopo aver perso il Premio Strega con la Scurati, dopo averlo vinto con la Nesi, quest’anno non brigasse né per perderlo né per vincerlo ma presentasse Amorino, il romanzo di una scrittrice vera. Infinitamente meglio degli operai della Avallone o delle lagne femministe di Giulia Innocenzi che poi però scrive Meglio fottere. No, meglio candidare con orgoglio la Santacroce. Se non ora, quando?

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