Se Victor Hugo e Lévi-Strauss s'incontrano nello «spazio»

Non è che in Francia se la passino bene. L'economia stenta a prendere le contromisure nei confronti della globalizzazione, la politica vede una destra disunita e una sinistra ambigua: sembra di essere in Italia. Ma due cose in Francia resistono: i caffè, e la cultura letteraria. Ci pensavo seduto a un tavolo di Les Deux Garçons di Aix-en-Provence, un caffè che è lì, immutato nello stile dal 1792, mentre leggevo il saggio Victor Hugo avec Claude Lévi-Strauss (edizioni Mille Et Une Nuits) di Françoise Choay, una filosofa e storica dell'architettura, dedicato a un tema che mi ha subito molto incuriosito: quale può mai essere il legame tra l'autore dei Miserabili , con la sua immensa produzione, e l'antropologo di Tristi Tropici che ha avuto tanta influenza sul pensiero del '900?

Il legame esiste, ed è rintracciato nelle pagine di Notre Dame de Paris . Il capolavoro di Hugo uscito nel 1831 oltre che la storia popolare di Quasimodo, Frollo, Esmeralda, è anche una testimonianza sul rapporto tra architettura e linguaggio e sulla lotta contro le mutilazioni che minacciano congiuntamente l'architettura e la lingua di un popolo. È il romanzo della grande cattedrale parigina, ma anche del destino della città. Hugo fa dire a un personaggio, di fronte alla copia di uno dei primi libri a stampa, che Gutenberg ucciderà l'architettura, primo linguaggio dell'umanità. Una tecnica sovranazionale ucciderà la specificità della cultura di un popolo? Hugo legge la città come farà Lévi-Strauss, che la considera della stessa natura e struttura di un poema o di una sinfonia, oggetto di natura e di cultura, «la cosa umana per eccellenza». In sintesi, Hugo il visionario, che viaggiando sul Reno profetizzava l'amicizia franco-tedesca e gli Stati Uniti d'Europa, e Lévi-Strauss, lo strutturalista studioso del pensiero selvaggio, s'incontrano nell'impegno di definire i rapporti tra una realtà che mantiene la propria specificità e la realtà mondializzata, come dicono i francesi, o globalizzata, come dicono tutti gli altri sulla scia di Marshall MacLuhan, il primo che parlò di «villaggio globale».

Una tesi troppo ardita? Non so.

Però vedere la tradizione letteraria nella figura di un suo gigantesco esponente attualizzata così, mi ha confortato, e fatto pensare che sarebbe bello se ciò accadesse anche in Italia, dove i classici vengono lasciati dormire nelle accademie.

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