Sulle tracce del capitalismo italiano che non c'è. Una biografia esemplare, utilizzata per dar conto del difficile percorso, mai ultimato, del nostro Paese verso la moderna cultura d'impresa. Questa, in sintesi, potrebbe essere la summa di Una sfida al capitalismo italiano: Giuseppe Luraghi, il saggio di Daniele Pozzi appena pubblicato da Marsilio (pagg. 318, euro 30, con una prefazione di Franco Amatori). Le avventure d'impresa di Luraghi (1905- 1991) che Pozzi narra nel dettaglio, sono quelle che caratterizano il destino di una personalità eccezionale ma paradigmatica. Luraghi, infatti, è stato uno dei primi veri manager moderni del nostro Paese. Tra i primi ha provato a innovare il sistema produttivo, a partire dal Dopoguerra. Il concetto di managerialità in Italia sino ad allora era penetrato poco. C'era l'impresa familiare, a volte cresciuta a dismisura, e c'era L'Iri che, per sua natura, era stata legata a filo doppio al fascismo. Dal mondo anglosassone però arrivava uno stimolo diverso: le public company, in cui l'azionariato diffuso lasciava spazio ad un gruppo dirigente non proprietario.
Importarlo nella Penisola era la sfida, l'unica che avrebbe potuto portare un duraturo benessere. Luraghi, laureato alla Bocconi negli anni '20 credeva nella necessità di far crescere una nuova capacità tecnico-dirigenziale. Tentò dapprima di svilupparla in Pirelli. La componente familiare dell'azienda risultò troppo forte. Provò a portare avanti lo stesso tipo di battaglia all'interno dell'Iri. Inizialmente sembrò avere maggior successo, soprattutto quando si trovò a svolgere un ruolo di rilievo all'Alfa Romeo. Grazie a lui presero l'avvio progetti di ampio respiro, pensati per trasformare una fabbrica di auto da corsa in una grande azienda moderna. Farina del suo sacco la rivoluzione interna che portò alla progettazione della Giuletta (prodotta dal 1955). Fu la prima Alfa costruita in più di 100mila pezzi. E poi a seguire la grande sfida dell'Alfa Sud (in catena di montaggio dal 1972), una sportiva di media cilindrata. Ma la modernizazione finì quando cambiò la stagione politica. Se per buona parte degli anni '50 l'input che arrivava da Roma era quello di innalzare la produttività e poco altro, inseguito le aziende divennero sempre più strumento sociale... Dovevano dispensare posti di lavoro al di là di ogni logica di produzione.
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