dal nostro inviato a Londra
«L'arte è un tentativo di arrivare al centro della verità. Esso è irraggiungibile ma ci si può considerevolmente avvicinare», ha detto in passato Anselm Kiefer, nato nel 1945 a Donaueschingen, in Germania. E ancora: «L'arte è difficile. Non è intrattenimento. Comprare arte non significa comprendere cosa sia». Dichiarazioni che lasciano capire come Kiefer si collochi al polo opposto rispetto all'arte spettacolo che va per la maggiore. Controcorrente dunque. Sentite qua. Damien Hirst? «Un grande anti artista». Le provocazioni? «Non sono contrario ma solo se non sono intenzionali». La politica? «Non sono un artista da polemica di giornata». La scena internazionale? «Non si può esporre di nuovo l'orinatoio di Duchamp. Eppure c'è chi lo fa. L'arte diventa così un passatempo divertente, al cui interno si può fare di tutto. I risultati però non lasciano traccia».
La serietà non impedisce a Kiefer di vendere benissimo le proprie opere, con quotazioni variabili a seconda di materiali e formati, ma comunque milionarie. La serietà non implica che Kiefer non sia un artista spettacolare. Anzi. La mostra «Anselm Kiefer», alla Royal Academy di Londra (dal 27 settembre al 14 dicembre), testimonia l'esatto contrario con tele monumentali e grandi installazioni quali Die Erdzeitalter (Le età del mondo, 2014), parte totem, parte pira, nell'insieme una colossale riflessione sul rapporto incommensurabile tra il nostro tempo e quello del cosmo.
La curatrice Kathleen Soriano ha selezionato un centinaio fra tele, installazioni e libri d'autore che coprono cinquant'anni di carriera. L'artista ne ha realizzate di nuove. La mostra è a tema. Questo: Kiefer sarebbe il più importante artista d'Europa e forse non solo. Non è questione di capacità tecniche, ormai acclarate, sia come pittore sia come scultore. (A nutrire qualche dubbio resta solo... Kiefer: «Non ho talento ma la mia mano adesso sa dipingere»). L'esposizione dovrebbe dimostrare che Kiefer è centrale perché affronta in modo radicale temi come la memoria, l'identità e la crisi di un intero mondo: il nostro.
Attraversando l'ingresso della Royal Academy, dopo aver superato la colossale installazione Für Velimir Khlebnikov: das Schicksal der Völker (Il destino delle nazioni, 2011-2014), si entra dunque nel dominio dell'arte di Kiefer. Nelle prime sale si arriva subito al cuore della questione. Siamo al cospetto delle rovine dell'Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Ha raccontato Kiefer: «Sono cresciuto nella Germania del dopoguerra. Un cumulo di macerie, giocavo con i mattoni delle case bombardate. Ma per me era bellissima, mentre oggi ha perso la sua identità». L'artista affronta la rimozione del nazismo e la mancanza di memoria del proprio Paese attraverso opere provocatorie, che lo fecero scambiare per un nostalgico del nazionalsocialismo. Eccolo dunque fare il saluto nazista davanti ai simboli del passato. Ciò accade sia nei libri, album ove sono raccolte foto e disegni poi usati come fonte d'immagini, sia nelle tele (come in Heroisches Sinnbild V , Simboli eroici V, 1970). Kiefer indaga i miti norreni, a esempio nella serie del 1973 su Parsifal , ricostruisce eventi militari ( Unternehmen Seelöwe , Operazione Leone marino, 1975), reinterpreta l'architettura nazista ( Dem Unbekannten Maler , Al pittore sconosciuto, 1983). Sono presenti numerose allusioni all'Olocausto e un profondo interesse per la cultura ebraica in opere come Sulamith (1983). La riflessione sul passato nazista, cos'è in fondo se non la ricerca di senso nel passato più buio e incomprensibile?
Proprio la perdita (o la mancanza) di senso genera la profonda malinconia che affligge le imponenti rovine di Kiefer. Il perpetuo interrogarsi è evidente fin dai titoli. Titoli diversi per soggetti identici. Ma anche titoli identici per soggetti diversi. Come se l'artista, tornato sulle stesse idee, ne avesse tratto conclusioni divergenti. È una visione ciclica della storia. Non a caso la mostra si chiude con una installazione, Der Rhine (Il Reno, 1982-2013), che ripercorre i temi di molti anni prima: la Germania, il confine e dunque l'identità. Di nuovo emergono richiami alla poesia di Celan e Goethe. Di nuovo la guerra fa irruzione con i resti della linea Sigfrido. Ma Kiefer ha anche un aspetto gentile e a suo modo ottimista: «Io adoro le rovine: quando ci si trova davanti alle macerie significa che si è anche davanti a un nuovo inizio». Oltre le rovine, pare di capire, ci attendono altre rovine. Ma anche altre rinascite attraverso l'arte.
Negli anni '90, dopo un breve ritiro dalle scene, Kiefer sembra estendere con maggiore decisione il suo raggio d'azione. Dall'Europa al resto del pianeta, indietro fino all'origine della materia. Cominciano quindi ad apparire le vestigia di altre culture del passato. Mesopotamia, America Centrale, Sudamerica, Egitto, Israele, Cina. Cresce il suo interesse per la cabala, l'alchimia, lo yoga. Kiefer rimane fedele a se stesso: siamo sempre di fronte al tentativo di penetrare il mistero della vita, oltre che della storia. Le opere però acquistano una qualità mistica. Come nella materia c'è un nesso fra distruzione e rigenerazione, nello spirito c'è un nesso fra l'uomo e un Dio magari silenzioso. Ecco dunque la serie di dipinti in cui un fiore (il girasole dell'amato Van Gogh) germoglia dalla pancia di un uomo a terra (Kiefer stesso) per guardare il cielo. Die Orden der Nacht (L'ordine della notte, 1996) è forse il risultato più impressionante ma il soggetto torna spesso. L'immensa tavola Osiris und Isis (1985-1987) sembra tenere insieme ogni aspetto dell'arte di Kiefer. Le rovine qui raccontano una storia di resurrezione: Isis ricompone e rigenera il corpo del marito Osiris, dio dell'oltretomba, straziato dal fratello Seth.
«Abbiamo bisogno dell'Europa intesa come cultura» ha detto una volta Kiefer. In fondo la risposta alle nostre macerie, la riscoperta d'una identità da contrapporre a chi vorrebbe spazzarla via, la rinascita dalla crisi passano proprio da qui: dalla cultura.
di Alessandro Gnocchi
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