Cultura e Spettacoli

Ma sotto Stalin ogni sussurro era un complotto

Lo studioso Orlando Figes ha scovato negli archivi dell’ex Unione Sovietica 500 storie di gente comune finite sotto la lente del dittatore. E svela il lato nascosto del Terrore

Nella lingua russa ci sono oggi due termini per indicare chi sussurra: sepcuscii per chi bisbiglia per timore di essere udito, e septun per chi informa segretamente le autorità. «La distinzione - spiega lo storico Orlando Figes - affonda le radici nel linguaggio degli anni di Stalin, quando l’intera società sovietica era costituita da sussurratori di un tipo o dell’altro». Quando cioè una parola sbagliata poteva spedire una persona in carcere, in esilio, o farla eliminare.
Nel suo nuovo libro The Whisperers: Private Life in Stalin’s Russia (Edizioni Allan Lane, pagg. 740) lo studioso britannico esplora il tema della difesa della vita privata in Unione Sovietica dagli albori della rivoluzione, durante la collettivizzazione e il Grande Terrore a ben oltre la morte di Stalin nel ’53, riportando le testimonianze di centinaia di famiglie attinte da archivi segreti, lettere e diari ora disponibili, o raccolte oralmente dalla sua squadra di ricercatori. Nomi citati: 500. Età media degli intervistati: 80 anni.
La vita privata dei cittadini dell’Urss era un tormento per Stalin, che la percepiva come una minaccia carica di complotti. Partito e polizia avevano l’ordine di intromettersi in ogni segmento della società dove potesse spuntare l’opposizione: la chiesa, i gruppi sportivi, i circoli di lettura, la famiglia, e soprattutto il cuore e la mente dell’individuo. Se il sistema riuscì in gran parte a sconfiggere ogni attività organizzata di resistenza, non l’ebbe però mai vinta del tutto sulla vita interiore del cittadino sovietico.
Eppure solo recentemente gli storici dello stalinismo guardano oltre l’ideologia, la politica e l’esperienza collettiva delle «masse» per esplorare la vita privata dei cittadini. Per molti anni, osserva Figes, le memorie degli intellettuali dissidenti quali Evgenija Ginzburg e Nadezhda Mandelstam, o le opere di Aleksandr Solzhenitsyn, «sono state acclamate come le voci autentiche del silenzio forzato, voci che raccontavano la vita dei cittadini comuni durante il Terrore di Stalin». In realtà, sottolinea lo storico, questi libri riflettevano l’esperienza di chi si era votato agli ideali di libertà, ma non rappresentavano ciò che succedeva ai milioni di uomini, donne e bambini non impegnati nel dissenso, i quali venivano ugualmente spediti nei campi di lavoro, in esilio, o condannati a esecuzioni sommarie.
Figes, storico della Russia e del periodo sovietico presso il Birkbeck college dell’università di Londra, già autore di A People’s Tragedy: The Russian Revolution 1891-1924, spiega ora, in questo affresco di una società costretta a sussurrare, l’impatto del gulag «nel mondo interiore dei cittadini comuni», e come uno stragrande numero di vittime «silenziosamente accettassero e interiorizzassero i valori del sistema, conformandosi alle sue regole». Raccontando, a fianco degli episodi di carestia e di guerra, le quiete ma disperate storie di individui e famiglie che combatterono l’impossibile per sopravvivere, per ritrovarsi, per accettare le lacerazioni fisiche e psicologiche inflitte dalla repressione. Per disintegrare la famiglia, il regime si avvaleva di un’arma ancora più sottile, la «sorveglianza reciproca» che appesantiva il fardello morale della gente, instillando sentimenti di colpa e di vergogna che persistettero ben oltre gli anni del carcere e dell’esilio.
C’era chi sussurrava per non farsi sentire dai vicini o dai colleghi e tutti erano potenziali informatori. C’era chi sussurrava informazioni alle autorità per lealtà verso il partito, per convinzione o perché messo sotto pressione. Neppure la famiglia era sicura: gli appartamenti comuni si erano trasformati in «un mezzo per allargare i poteri di sorveglianza dello stato negli spazi privati». Le famiglie si tenevano d’occhio a vicenda, riferendo ogni cenno di slealtà, mentre lo Stato non solo incoraggiava i bambini a informare ma li ammoniva che in caso contrario sarebbero stati trattati con sospetto e i genitori puniti. L’età della responsabilità criminale fu abbassata a 12 anni per forzare gli adulti a collaborare con gli interrogatori e risparmiare i figli. Chi aveva una «biografia viziata», come i kulak benestanti, veniva arrestato, punito e giustiziato, i loro figli dovevano rinnegare i genitori se non volevano portare «lo stigma delle origini», recidere ogni rapporto con la famiglia se volevano andare alle scuole superiori o far carriera.
A dispetto di tutto la famiglia seppe tener duro e resistere a ogni tentativo di estinzione da parte del regime. Figes sottolinea l’importanza della figura della nonna, portatrice di valori umani prerivoluzionari, nell’educazione dei bambini, nell’elargire un affetto che l’identità collettiva dei genitori doveva loro negare. Furono queste nonne intrepide ad affrontare esilî inimmaginabili, ad adoperarsi nella caparbia ricerca dei giovani membri superstiti di famiglie devastate da arresti ed esecuzioni. In una pagina di diario del ’37 uno scrittore annotava che «la gente diventava così esperta a dissimulare il significato di ciò che diceva che rischiava di perdere la capacità di dire la verità». E questo a sua volta generava una maggiore diffidenza perché «nessuno sapeva che cosa si celasse dietro la maschera». La Seconda guerra mondiale venne addirittura vissuta da molti con sollievo.

Era un cambiamento positivo, spiega Figes, il quale, citando l’epilogo del Dottor Zivago di Pasternak, osserva che gli orrori della guerra «erano una benedizione se paragonati al disumano potere della menzogna».

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