Star, eroi e sconosciuti. Quanti italoamericani sbarcati in Normandia

Campioni di baseball, guerrieri d'acciaio, comuni militari travolti dalle onde dell'Atlantico. Sulle sabbie di Omaha Beach erano in molti a portare un cognome italiano

Star, eroi e sconosciuti. Quanti italoamericani sbarcati in Normandia

Alcuni li puoi trovare al cimitero di Colleville sur Mer. Riposano con gli altri,un po’ per­si in mezzo alle 9.387 croci bian­che, tutte uguali. Spuntano qua e là con un cognome che suona di­verso: Lewis A. Paolini, Michael F. Abatemarco, Carino H. Pinto, Philip S. Maniscalco... Persino, con una certa ironia macabra, il soldato semplice Bernardo Libe­ratore il quale, partito dallo Stato di New York, non ne ha fatta mol­ta di strada per liberare la Fran­cia dai tedeschi: fu stroncato dal fuoco nemico il 25 giugno del 1944. E dietro ogni lapide una sto­ria, a volte banale a volte eroica. Altri invece sono tornati a casa, nella loro patria«acquisita».Una patria che dopo il D-day, dopo la battaglia di Normandia, era di­venta più «loro»,per diritto di san­gue versato e coraggio dimostra­to. E allora«l’io c’ero a Omaha Be­ach, l’io c’ero a lottare contro i te­deschi nel bocage » è diventato un racconto per quei nipoti per i quali la vecchia lingua del nonno ormai ha un suono davvero stra­no, un segno definitivo d’appar­tenenza alla nuova Nazione a stelle e strisce.

Stiamo parlando degli italoa­mericani che hanno partecipato allo sbarco e alla battaglia più fa­mosa della Seconda guerra mon­diale. Ne passarono davvero mol­ti da quelle spiagge e da quei por­ti. Tanto che i film e la letteratura ne hanno fatto degli archetipi, ve­di l’Adrian Caparzo di Salvate il soldato Ryan o il Vinci del Gran­de uno rosso di Samuel Fuller (che il D-day se lo fece davvero). E se il tempo ha cancellato molte di quelle storie alcune sono anco­ra recuperabili.

Ci sono gli italoamericani fa­mosi. Come il campione di base­ball Yogi Berra ( il cui padre era di Cuggiono, provincia di Milano) star indiscussa dei New York Yankees e noto per aver inventa­to la frase che racchiude tutto lo spirito del baseball: «Non è finita sinché non è finita». Il 6 giugno del 1944 quella frase non l’aveva ancora inventata e come marina­io era su una nave da sbarco dota­ta di lanciarazzi. Si chiamavano «Landing craft support small» (piccole imbarcazioni di suppor­to per sbarchi). Ma Berra e i suoi compagni le avevano ribattezza­te «Large stationary target»(gros­si bersagli immobili). Le rare vol­te che Berra ha ricordato l’inizio dello sbarco lo ha fatto in questi termini:«Ero un ragazzo,mi sem­brava una festa tipo il quattro lu­glio... A un certo punto dissi: “Ehi ragazzi guardate, sembra fico, tutti gli aeroplani ci stanno pas­sando sopra!”. Il mio ufficiale mi rispose: “Farai bene a tenere giù la testa se non vuoi che telastac­chino dal collo...” ». Berra rimase a difendere la spiaggia dagli attac­chi aerei per dodici giorni dopo lo sbarco: «Ci dissero di sparare a tutto ciò che volava sotto le nubi. Uno dei nostri areoplani scese sotto la quota delle nubi e noi gli sparammo addosso abbattendo­lo. Il pilota si lanciò e cadde così vicino che potemmo recuperar­lo... e sentire tutti gli insulti che ci lanciò».

Ci sono anche gli eroi, quelli che hanno ricevuto la massima onorificenza dell’esercito ameri­cano, la Medal of Honor. Uno è Arthur Frederick De Franzo. Era nato a Saugus, Massachusetts, ed era un sergente della prima di­visione di fanteria («Il grande uno rosso»di Fuller).Il suo repar­to, il 10 giugno del ’44,stava com­battendo vicino a Vaubadon, un microscopico villaggio della Nor­mandia. Finì sotto il fuoco delle mitragliatrici. Uno dei suoi uomi­ni fu colpito. Si gettò allo scoper­to, si beccò un proiettile, ma sal­vò il ferito. Dopo partì al contrat­tacco tirandosi dietro tutta la squadra di fucilieri. Mise fuori combattimento un primo nido di mitragliatrici, beccandosi un’altra pallottola. Riuscì co­munque a raggiungerne un se­condo, polverizzandolo a colpi di granata. Morì poco dopo, ma i tedeschi furono spazzati via.

L’altro eroe è il soldato sempli­ce Gino J. Merli (nato da un mina­tore di origine italiana e morto nel 2002). Sopravvisse senza troppi guai allo sbarco e conti­nuò la sua avanzata sino a Sars- la-Bruyère al confine belga. Lì le co­se si volsero al peggio: un contrat­tacco notturno travolse il suo re­parto. Gino J. Merli a quanto pa­re era bravissimo a fingersi mor­to. I tedeschi lo superarono solo per trovarselo alle spalle che spa­rava come un matto. Tornarono ad attaccare la sua posizione, di nuovo pensarono di averlo ucci­so ( per controllare che tutti fosse­ro morti infilzarono i cadaveri americani con le baionette). Ap­pena si allontanarono di nuovo Merli «l’immortale» si rialzò e aprì il fuoco. Venne recuperato dai suoi la mattina del 5 settem­bre: attorno alla sua mitragliatri­ce c’erano 52 tedeschi morti. Ma per molti altri fu un percor­so più anonimo per quanto spe­ciale, rimasto nelle memorie di famiglia. Quelle memorie che ne­gli States tutti tirano fuori per il Memorial day (che sta al nostro 4 novembre come un colpo di can­none sta a un petardo). Così c’è chi ricorda anche Frank Sabia e Joe Carbonaro (divennero pa­renti dopo la guerra): un nipote ha regalato loro una intera pagi­na Internet. Uno sbarcò il giorno D+1,l’altro il giorno D+3.

Fecero quello che fece la maggior parte dei soldati. Sbarcarono quando non c’era più neanche un tede­sco. Ma ne parlarono per tutta la vita. Del resto la Whermacht li aspettava nei boschi delle Arden­ne. Ma questa è un’altra storia...

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