Tanta fisica, poco cuore I cervelloni non capirono il pericolo nazista

La fin troppo citata affermazione di Benito Mussolini sul cinema come «arma più forte dello Stato» aveva un certo fondo di verità. Basti pensare a come il mondo di Hollywood colonizzò l'immaginario occidentale e in tal modo vinse la guerra del consenso prima ancora di quella degli eserciti. È però indubbio, nei due conflitti mondiali del Novecento, il ruolo svolto dai materiali, dall'industria, dalla tecnica e da ciò che ne è all'origine: la scienza. La chimica servì infatti per produrre i gas asfissianti che mieterono vittime nelle trincee del '14-18 e poi nei campi di sterminio, mentre la fisica diede il colpo di grazia al Giappone con le bombe atomiche statunitensi. Il traguardo a stelle e strisce verso i micidiali ordigni con plutonio ed uranio fu agevolato dall'atteggiamento poco lungimirante della Germania hitleriana, la quale cercò di asservire la scienza patria e volle l'epurazione delle intelligenze ebraiche.

L'affascinante storia del rapporto fra i pionieri della fisica quantistica e il regime della svastica è raccontata nel saggio Al servizio del Reich. Come la fisica vendette l'anima a Hitler di Philip Ball (Einaudi, pagg. 290, euro 32, traduzione di Daniele A. Gewurz). Nell'ottica della mobilitazione totale, il Terzo Reich cercò di mettere la scienza al servizio della gloria nazionale e dell'efficienza bellica. In un primo momento quasi tutti gli scienziati acconsentirono, in virtù di un'incondizionata fedeltà di tradizione prussiana alla Stato. I problemi sorsero però quando il Nazismo decise di fare a meno degli studiosi di origine ebraica, i quali non erano pochi. Inoltre avallò la pretesa di far nascere una fisica di pura origine razziale, una «scienza germanica» ben lontana dalle astrazioni matematiche e dai rovelli relativistici di Albert Einstein (il nemico pubblico numero uno del Reich, perché israelita e per giunta internazionalista e pacifista) e dei suoi seguaci.

La vergogna denunciata nel saggio di Philip Ball è che più di uno scienziato, qualche premio Nobel compreso, non protestò con fermezza contro la politica razzista e contro il controllo statale della libera ricerca. Molti studiosi preferirono far finta di niente in attesa di tempi migliori, nell'illusione di riuscire a preservare qualche spazio di autonomia.

Quando il Terzo Reich si accorse dell'importanza degli studi sull'atomo, era ormai troppo tardi: scienziati di origine ebraica espatriati come Einstein e Leo Szilárd e un emigrato perché sposato con una ebrea, come l'italiano Enrico Fermi, avevano messo l'atomica nelle mani degli Usa. E l'atomica aveva messo nelle stesse mani la supremazia mondiale.

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