Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo uno stralcio dell'articolo del critico d'arte Alvar González-Palacios incluso nel catalogo della mostra La ricerca della Bellezza. La Collezione Cavallini Sgarbi da Lotto a Morandi (a cura di Vittorio Sgarbi, ad Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani del Popolo 12 giugno 2021 30 settembre 2022; catalogo a cura di Pietro di Natale, edito da La nave di Teseo).
di Alvar González-Palacios
Conosco bene la formazione di Vittorio Sgarbi. Il suo maestro ideale sarebbe stato quello che fu il mio, Roberto Longhi, che però è morto quando Sgarbi (ferrarese del 1952) aveva diciotto anni e faceva ancora il liceo.
All'Università di Bologna Sgarbi fu allievo di Carlo Volpe, dal quale imparò a leggere i quadri come si legge un libro, con pazienza e buona memoria. Non manca di sorprendere come un uomo così mercuriale ricordi bene ciò che vede: questo è uno dei segreti della conoscenza, indovinare l'unità fra due cose apparentemente diverse. Tutto sorprende sempre negli altri. I titoli dei due ultimi volumi che documentano le sue raccolte diventate, col contributo dei genitori e della sorella Elisabetta, la Fondazione Cavallini Sgarbi sono Il Giardino segreto e Le stanze segrete: è curiosa la persistenza di questo aggettivo in una persona che è più pubblica che privata. Anni fa mi capitò di incontrarlo davanti a un dipinto di Tiziano. Parlammo amabilmente, discutendo del quadro, e man mano si avvicinarono alcune persone e Sgarbi iniziò a parlare più forte. Il gruppo si infoltì e la voce continuò ad alzarsi. Pochi minuti dopo era diventata una sorta di conferenza e lui non si accorse nemmeno di quando io mi allontanai fendendo la piccola folla. Non sempre gli storici dell'arte si sono distinti per la bellezza delle loro collezioni. In Italia, così su due piedi, non posso elencarne molte. Vengono alla mente subito le più famose, quella di Berenson e quella di Longhi, seguite a distanza non breve da quella di Zeri. Altri non hanno avuto forse i mezzi necessari e ad altri ancora, nella maggior parte dei casi, è mancato soprattutto il gusto.
Negli ultimi quarant' anni Sgarbi ha avuto un ruolo importante assicurandosi molte opere, tenendo in conto che queste quattro decadi non sono state particolarmente favorevoli per i collezionisti. I soggetti femminili spiccano vistosamente fra i dipinti della raccolta. Scelgo quelli che più mi piacciono e inizio con un quadro particolarmente libero di Artemisia Gentileschi, una Cleopatra non priva di quella forza fisica a cui Artemisia sembra abituata essendo quasi sempre violenta, una sorta di carnefice professionale. La sua protagonista è qui ridotta all'essenziale, remissiva, e senza l'aiuto retorico di vesti roboanti. L'intreccio di braccia, di mammelle e di carne è ben composto come nella sua Giuditta di Capodimonte e nella Danae su rame di Saint Louis. Guido Cagnacci è un eccellente pittore, diventato famoso nell'ultimo mezzo secolo e l'ho già scritto altrove decisamente eccentrico («che non è intorno al medesimo centro», scrive un vecchio vocabolario). Cagnacci si è impossessato di tutto quello che gli serviva ovunque lo trovasse. Chi vede nelle sue tele, sempre molto personali e un po' morbose, echi del Reni, chi del Caravaggio, chi del Vermeer e di chi dir si voglia. Forse è tutto giusto ma a mio avviso è più giusto ancora vedervi un carattere solo paragonabile a se stesso. Non so se ciò basti per ritenerlo uno dei sommi pittori del suo secolo, il Seicento, un'epoca che conta molti maestri. Accanto a loro l'irrequieto Cagnacci appare un notevole autore che, come scriveva Padre Resta, aveva fatto «cose strapazzate ma anche altre straordinarie e meravigliose». L'Allegoria della vita umana qui esposta è uno dei suoi quadri più alti. Ma se dovessi scegliere fra questo e la Cleopatra della Gentileschi non avrei dubbi.
Non mi allontano troppo da queste nudità, a cui si diedero titoli devozionali o filosofici, forse per mascherare inclinazioni meno edificanti. Parlo di un'opera che non si direbbe adatta alle stanze di un inquisitore di Santa Romana Chiesa, il cardinale (e il suo nome è già tutto un programma) Desiderio Scaglia. Può veramente definirsi un soggetto sacro la Maddalena portata dagli angeli in cielo secondo il pensiero del Morazzone? È innegabile che il pittore lombardo fosse spesso eccessivo nella sua descrizione degli stati emotivi ma non giunse mai a un tale grado di convoluta espressione erotica. Non considero questo un demerito per quel che è uno dei capolavori della pittura dell'Italia settentrionale del primo Seicento.
Tutt' altre stanze sono quelle abitate da Simone da Pesaro, il Cantarini . È un mondo improntato alle buone maniere, alla misura. La pittura è sempre corretta e mai troppo espansiva: in questo caso una signora di ottima famiglia che si dà di piena grazia all'arte. Non manca di mettersi in posa, lieta di essere ammirata persino dal puttino che la assiste nel compito, più naturale di lei stessa. I colori sono ben meditati, la composizione saggia, il movimento calmo, quasi come un fotogramma.
Se questo dipinto, nel suo composto distacco, non è partecipe della sensualità delle figure che esaltavano quelli esaminati prima, il tondo di Simone Pignoni, di non ovvi significati (si è proposto di spiegarlo come immagine dell'Idolatria) allude alla carne solo con la nudità della spalla destra che risulta comunque molto invitante.
Non potrò soffermarmi qui su tutti i quadri che mi interessano. Comincio con quello molto avvincente del cremonese Antonio Cicognara, ferrarese d'adozione e autore di una magnifica pala con la Vergine circondata da due sante . Berenson deve aver amato particolarmente Cicognara se ne regalò una Madonna col Bambino firmata e datata nel 1480 alla Pinacoteca di Ferrara. Si interessò molto alle vicende storico-artistiche di questo pittore quasi sconosciuto allora, e accettò anche l'idea del suo rivale Longhi che aveva proposto una partecipazione del Cicognara alla Sala dei Mesi nel Palazzo Schifanoia.
Al 1490 risale il dipinto qui esposto nel quale Cicognara si presenta in vesti più convincenti, impregnate di un patetismo più delicato: qualcosa forse doveva ad artisti maggiori di lui come Giovanni Bellini. La posizione delle sante Caterina e Agnese che, anziché guardare verso la Vergine, guardano in direzione opposta, potrebbe far sorgere il dubbio che il dipinto sia stato di dimensioni ancor più importanti, includendo altre figure laterali.
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La scultura più nota della collezione resta comunque quella di Niccolò dell'Arca, con un austero San Domenico in terracotta acquistato nel 1984 . In quello stesso anno conobbi Vittorio Sgarbi, presentatomi con grande favore da Federico Zeri. L'opera di Niccolò dell'Arca ha guadagnato giustamente molta fama da allora ma l'amicizia tra Sgarbi e Zeri si oscurò ben presto frantumandosi strepitosamente fra lampi e tuoni, per finire di lì a poco. In realtà i due uomini erano nati per amarsi ma non certo per comprendersi e sopportarsi. A me toccò rappacificarli, almeno dopo la morte di Zeri. Nel 1998, chiesi a Sgarbi di unirsi ad Alberto Arbasino, a me, a Bruno Racine (allora direttore dell'Accademia di Francia a Villa Medici) nel commemorare Federico.
Come immaginavo, anzi come sapevo, fu il discorso di Sgarbi quello che risultò più toccante.Come il suo San Domenico di terracotta, Sgarbi da allora ha sempre ricordato con grande ossequio il vecchio burbero, sussurrando le dovute omelie esorcizzanti.
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