Cultura e Spettacoli

Usare le tasse per far dimagrire i cittadini? La dieta la fa il portafoglio

L'istituto Bruno Leoni raccoglie in volume una serie di studi contro le imposte sul "cibo-spazzatura"

Usare le tasse per far dimagrire i cittadini? La dieta la fa il portafoglio

Tassare per educare. Colpire nel portafoglio i vizi dei cittadini per ottenere un beneficio per l'erario e per la salute dei singoli. È uno dei cavalli di battaglia di quello che viene chiamato soft paternalism, ovvero paternalismo debole. Qualcuno si spinge a etichettarlo addirittura come paternalismo "libertario". L'ultima moda di questo proibizionismo sotto traccia sono le accise sul junk food , il cibo spazzatura. Si va dalla "tassa sulle patatine" del 2011 in Ungheria alla tassazione sui cibi grassi in Danimarca (poi abrogata) passando dalle tasse sulle bibite gassate che tanto piacciono negli Usa (ci sono in Arkansas, Tennesee, Virginia). Il tema è diventato di interesse anche in Italia quando nel maggio 2012 il ministro della Salute, Renato Balduzzi, propose un'imposta sulle bibite e sui super alcolici (il provvedimento venne stralciato per le proteste delle aziende). Su questa caccia ai "consumi dei ciccioni" si è interrogato l'Istituto Bruno Leoni, per capirne efficacia e limiti.

Il risultato è il saggio a più voci Obesità e tasse (a cura di Massimiliano Trovato): l'esito della ricerca è ben sintetizzato nel sottotitolo: "Perché serve l'educazione e non il fisco". Però quel che conta è capire il meccanismo che porta a questo fallimento. Per quanto riguarda i limiti teorici, li illustra William F. Shughart, economista dell'università del Mississippi. Questa non è una tassazione equa né "verticalmente" (pesa più sui poveri che sui ricchi) né "orizzontalmente" (discrimina alcuni prodotti). E neppure a livello teorico è così semplice correlare il costo sociale (quello per il servizio sanitario) con determinati cibi. Si può diventare obesi mangiando pane a dismisura disdegnando bibite... Insomma il moralismo prevale sulla corretta definizione «della categoria dei costi sociali».

Esiste poi un vizio nel ragionamento su cui si basa la tassazione. Ben spiegato nell'intervento di Gordon Tullock, professore alla George Mason University. Questi dazi sono ancipiti. O fanno crollare i consumi, e allora lo Stato non ottiene alcun consistente guadagno; oppure non hanno effetti positivi sulla salute. Quanto all'analisi sul rapporto di questo tipo di provvedimento con la prevenzione e la politica, Richard Tiffin e Matthew Salois spiegano bene, nella seconda parte del volume, come la qualità nell'alimentazione sia intimamente connessa con il reddito, l'educazione e la famiglia. Allora forse gli interventi educativi mirati risultano più efficaci rispetto a un provvedimento relativo a tutta la popolazione. E così si arriva all'ultima parte che racconta come è andata a finire quando l'erario è passato dalla teoria alla pratica. Tutti gli autori che trattano il tema, da Richard Williams e Katelyn Christ a Scott Drenkard della «Tax Foundation» di Washington, si concentrano sugli esiti scarsissimi delle tasse sulla diminuzione della ciccia. Gli effetti sono quasi tutti sul reddito e sul mercato, e nessuno è positivo. Ma se, economicamente, il sistema non funziona, perché ciclicamente ci si ricade? Forse perché in politica si confonde una certa morale con il bene pubblico.

Però è dai tempi dei «Vizi privati, pubblici benefici» di Bernard de Mandeville che dovremmo essere vacinati da questo errore.

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