Delizia del disordine/ Un dolce disordine nel vestito/ desta nell’abito la giocosità/ Un telo leggero gettato/ con elegante distrazione/ Un merletto vagante, che qua e là/ asservisce la pettorina cremisi/ Un polsino noncurante, e lì vicino,/ nastri che ricadano confusi/ Un’onda vittoriosa, che attira l’attenzione/ alla gonnella tempestosa/ Un laccetto trascurato, nel cui fiocco/ intravedo un garbo selvaggio/ Mi ammagliano di più, che quando il tocco/ è troppo esatto, in ogni sua parte.
In una breve poesia, il poeta inglese del periodo della Restaurazione Robert Herrick (1591-1674) descrive il modo imperfetto in cui è vestita una particolare donna. Tutto del suo abbigliamento è sbagliato. Il suo «telo è gettato con elegante distrazione», i «nastri ricadono confusi», il polsino è «noncurante», il laccetto della scarpa è «trascurato» - tutto di lei suggerisce ciò che il poeta definisce con grande precisione «garbo selvaggio». In breve, è un po’ in disordine. Ma ciò che attrae il poeta è proprio il suo garbo selvaggio.
Questa concezione dell’imperfezione, e in alcuni casi dell’imperfezione volontaria o persino studiata, non è una novità per lo spirito dell’estetica del Rinascimento e del post-Rinascimento che ci fece conoscere la sprezzatura di Castiglione e, un secolo dopo, il concetto spagnolo e francese dell’elusivo je ne sais quoi. La perfezione, come suggerisce il poeta Herrick, può essere desiderabile, ma non è «seducente». Non si tratta proprio di ars est celare artem. Qui l’arte fallisce quando è «troppo precisa in ogni parte». E per provare questo punto di vista, il poeta finisce per comporre una poesia che è essa stessa davvero imperfetta. Le sue rime non sono esattamente indovinate, il suo metro è irregolare, il suo enjambment inquietante. In breve, si tratta di una poesia imperfetta sull’imperfezione.
Pensate al Quartetto delle Dissonanze in Do maggiore K 465 di Mozart, in cui la dissonanza diventa musicale, vale a dire melodiosa. La poesia è forse una delle più conosciute di Herrick, e il Quartetto delle Dissonanze è probabilmente il migliore dei sei quartetti che Mozart dedicò a Joseph Haydn. In breve, queste opere imperfette sono entrambe davvero, davvero... perfette.
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Se mi chiedessero quale sia lo scopo dell’arte, sarei tentato di dire che è quello di riparare agli errori della vita o, nella migliore delle ipotesi, di porre rimedio alle imperfezioni della vita. Ad esempio, la missione dell’arte è prendere il corpo umano e renderlo perfetto, vale a dire, migliore di quello che è nella vita reale. Michelangelo, Canova, e più recentemente Mapplethorpe, sono tre artisti che vengono immediatamente in mente. Possiamo spingerci leggermente oltre e dire che persino con questi tre artisti non è il corpo a essere necessariamente perfetto. È l’imitazione, la rappresentazione, la trasposizione, l’interpretazione del corpo a essere perfetta. Eppure, possiamo spingerci ancora oltre suggerendo che il corpo non deve essere affatto perfetto per essere il soggetto di una perfetta opera d’arte. Ma possiamo fare un ulteriore passo avanti mostrando che un’imperfetta imitazione di un corpo imperfetto può ancora tradire il genio di un artista. Si pensi a Van Gogh. Le alterazioni stilizzate delle pennellate di Van Gogh costituiscono la sua vera genialità. Magari non è nemmeno il modo in cui altera la notte ma come stilizza la notte, un campo di grano, una sedia. È lo stile a creare l’arte, non ciò che l’arte prende in prestito dalla vita.
Ciò che mi affascina non è il fatto che l’arte ci offra delle imitazioni perfette o imperfette, o che proprio i meccanismi della rappresentazione siano misteriosamente chiamati in causa nel porre rimedio alle imperfezioni, senza necessariamente cancellarle. Una perfetta imitazione di un’imperfezione non pone soltanto rimedio alle imperfezioni della vita, non cancella solamente quell’imperfezione, ma alla fine la stravolge, la sublima. L’arte prende l’assenza di armonia e la trasforma in armonia. Trova bello ciò che, in teoria, è privo di quei principi organizzativi che rendono belle le cose.
Come l’arte riesca a farlo è una cosa che non capisco. \\\\\\\\\\\\\\\\
Ci dicono che l’arte imita la vita. Ma non ha importanza se ciò che imita è bello o meno, perfetto o imperfetto. Ciò che importa è che il processo della creazione artistica sublimi la vita, la estetizzi, la astragga - prenda la vita e la trasformi in qualcosa di simile alla vita, ma per nulla realistico.
Ciò che l’osservatore non è mai in grado di vedere, di cogliere, ciò che gli è davvero proibito comprendere è la transizione tra il materiale grezzo fornito dalla vita e la sua definitiva trasformazione in arte. Possiamo fissare il cipresso di Van Gogh o il campo di papaveri di Monet per ore senza capire il motivo per cui le cose di cui ci accorgiamo a malapena nella vita reale all’improvviso ci incantano.
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La vita pullula di imperfezioni. Tuttavia, ho in mente un’imperfezione che supera di gran lunga tutte le altre: non la crudeltà, il tradimento, l’errore, o la giustizia. L’elenco delle imperfezioni della vita è infinito; ma l’unica imperfezione assoluta è la morte. So che molti filosofi sono riusciti intelligentemente a giustificare l’esistenza della morte e a dimostrare che la vita stessa sarebbe intollerabile, e di conseguenza imperfetta, senza la morte. Io non sono d’accordo. L’arte non tollera la morte. Non la tollera in due modi. Primo: accertandosi di soppiantare la nostra mortalità. Ergo: la questione di una forma duratura. L’immortalità di un’opera, l’immortalità dell'impronta di un artista. Ecc... Il secondo modo in cui l’arte non tollera la morte è combattendo costantemente con la vita, competendo con essa, subentrando a essa. E qui viene subito in mente Marcel Proust. Come Montaigne, La Rochefoucauld, Saint-Simon.
(traduzione di Licia Vighi)
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