Il verso giusto Il lamento del vampiro Panero, la vista lunga della follia


di Nicola Crocetti


Voi, voi tutti, tutta
quella carne che per strada
si ammucchia, siete
per me alimento,
tutti quegli occhi
coperti di cispe, come chi non finisce
mai di svegliarsi, come
guardando senza vedere o soltanto per sete
dell'assurdo consenso d'un altro sguardo,
tutti voi
siete per me alimento, e l'orrore
profondo di avere per unico specchio
quegli occhi di vetro, quella nebbia
dove si incontrano i morti, questo
è il prezzo che pago per alimentarmi.

(Traduzione di Alessandro De Francesco)


Ogni volta che si parla di un poeta toccato dallo stigma della follia (l'elenco sarebbe lunghissimo), si riesuma il luogo comune romantico dei poètes maudits. Quasi non fosse sufficiente essere poeta e basta, poeta grande, poeta sventurato, e fosse necessaria l'etichetta appioppata da Verlaine alla compagine dei suoi sodali Corbière, Baudelaire, Rimbaud. Pochi giorni fa è scomparso a 65 anni Leopoldo María Panero, uno dei poeti più geniali della Spagna moderna. È morto nel sonno, nella sua solitudine infinita, dopo trent'anni trascorsi in vari manicomi, ultimo quello di Las Palmas, dove si era volontariamente recluso. Quello della poesia è uno stigma di famiglia: poeta di spessore il padre Leopoldo (rimosso dalle storie letterarie perché falangista), poeta il fratello Michi, scrittrice e attrice di successo la madre Felicidad Blanc.
Nasce nel '48 a Madrid, studia lettere e filosofia, ma, per dirla con De Vigny, «da quando imparò a leggere fu Poeta, e appartenne alla razza sempre maledetta dalle potenze della terra». Entra presto in carcere, prima per antifranchismo, poi per omosessualità e per l'uso smodato di alcol ed eroina, cui dedica una stupefacente raccolta di versi. La diagnosi di schizofrenia gli fa girare quasi tutti i manicomi spagnoli, ma non gli impedisce di scrivere a profusione: raccolte di poesia, narrativa, saggistica, traduzioni. Un'opera copiosa, scandalosa, che trasuda la crudeltà e la violenza da lui sperimentate.

Parole di fuoco contro la politica, l'emarginazione, la banalità, l'idiozia del potere, l'ipocrisia della società. La poesia, scrive, dev'essere un lavoro ben fatto, «un bellissimo palazzo da costruire sulle rovine del mondo», continuando l'opera dei poeti che hanno inteso «dare un senso più puro alle parole della tribù».

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