di Nicola Crocetti
Ah, se quel flauto io sapessi sonare
come so mettere i miei versi in rima!
Perché la parola? Che vuoi che esprima
per lei che prende voglia di danzare
quando sente il vento appena spirare
nel lungo silenzio del freddo clima?
Ah, se quel ?auto io sapessi sonare
come so mettere i miei versi in rima!
Salgo alla tomba. Il cancello mi appare,
ma è buio, hanno chiuso forse la cima.
No, ancora no! Restai lì a guardare,
bisbigliando per i morti la rima:
Ah, se quel flauto io sapessi sonare!
«Se dite che i versi sono anche canto/ - e si dice -,/ tutta la vita ho cantato»: questi versi del 1967 potrebbero fare da epigrafe al poeta ceco Jaroslav Seifert (Praga 1901-1986). Per lui la poesia è canto: canto civile, canto di libertà e canto d'amore. Ed è per dovere d'amore che Seifert, per sessant'anni, scrive poesie. Nato in un sobborgo operaio della Praga comunista, cresce nel mito della Rivoluzione russa, aderisce al Partito comunista, e serve la stampa di partito come giornalista. All'ideologia sono dedicate le sue prime raccolte, in cui spicca l'amore per la magica Praga, «bella venditrice di fiori, di oro e di ampolle», e per il suo Paese «di dolci fiumi e donne appassionate». Un viaggio a Parigi, nel '23, amplia i suoi orizzonti letterari, e tornato in patria fonda un movimento d'avanguardia. Dopo altri viaggi - in Italia, nell'Urss e in altri Paesi europei - sfronda le sue tematiche proletarie, affina i suoi gusti e matura un atteggiamento critico verso il comunismo. Nel '29 dissente dalla linea di Mosca e il partito lo espelle.
Nelle raccolte La mela dal grembo, del '33, e La mano di Venere, del '36, cerca ispirazione e rinnovamento nella tradizione poetica ceca e nella vita di tutti i giorni. Nel '38, dopo l'accordo di Monaco che smembra la Cecoslovacchia, scrive il suo testo più famoso, Spegnete le luci.
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