Ieri sera allo Spazio Oberdan, la Provincia di Milano ha ricordato Giuseppe Volpi (1877-1947), finanziere, industriale, diplomatico, politico, mecenate. E veneziano, tanto da meritarsi il titolo “ultimo doge”, come si intitola il convegno che - introdotto dal vicepresidente della Provincia, Novo Umberto Maerna - sarà condotto da Maurizio Cabona. Partecipano il generale Giorgio Blais, lo storico Luciano Garibaldi e il giornalista e saggista Alberto Pasolini Zanelli. Alle parole seguiranno le immagini di Dai nostri inviati alla Mostra di Venezia 1932-1953, documentario di 50 minuti firmato da Giuseppe Giannotti, Enrico Salvatori e Davide Savelli (produzione Rai-Luce, 2012). Occasione di convegno e proiezione sono due ricorrenze: il centenario del trattato di Ouchy tra Italia e Impero Ottomano, firmato da Volpi - su mandato di Giolitti, allora presidente del Consiglio - che riportò la pace in Tripolitania e Cirenaica; e gli ottant'anni della Mostra del cinema di Venezia.
La conquista del 1911-12 fu figlia del post-Risorgimento e delle sue delusioni, parente stretta dell'espansione coloniale europea in Africa e conseguenza, soprattutto, di Dogali e Adua: prime sconfitte di un esercito europeo contro uno africano, apparente fine delle mire italiane sull’Africa orientale. Ma il clima mondiale non era quello. Esplodeva, anzi, la coscienza dell’imperialismo un po’ ovunque. A cominciare dal Sud Africa: la guerra della Gran Bretagna contro le Repubbliche Boere, che suscitò in Germania solidarietà anti-inglese, nei nazionalisti italiani provocò invece l'identificazione con la Gran Bretagna come esponente della razza bianca.e del suo “duro dovere” cui doveva andare la solidarietà dell’Italia “culla del più antico e grande impero della Storia”. Si giunse a proporre una solidarietà concreta: che l’Italia mandasse soldati in Egitto, a Gibilterra e a Malta, rendendo disponibili per il Sud Africa truppe inglesi (e avere qualcosa in cambio nel Mediterraneo).
Un altro eroe dell’imperialismo altrui, ancora più improbabile, era per una parte dei nazionalisti italiani Theodore Roosevelt, non ancora presidente degli Stati Uniti, ma già eroe della guerra contro la Spagna, teorico e araldo della “missione civilizzatrice”. Piaceva perfino a Ricciotti Garibaldi, che offrì a Londra la sua spada. Entusiasta quasi quanto Gabriele d’Annunzio, che aveva da poco composto e cantato La nave, che con la sua prora attingesse il controllo delle acque, agile torpediniera d’acciaio vigilante soprattutto sull’Adriatico. La “nave” diventò nella realtà una corazzata e navigò alla volta di Tripoli, per bombardarla.
Perché? Perché Tripolitania e Cirenaica – il nome romano “Libia” venne loro rimesso a posteriori - era l’unico bottino disponibile dopo le delusioni inflitte al nostro giovane Paese in Egitto e, ancor più, in Tunisia. Tripoli era parte dell'Impero Ottomano, che il Regno di Sardegna (cioè il Piemonte) aveva sostenuto militarmente nel 1855 contro la Russia, mandando fra l’altro i bersaglieri in Crimea e guadagnandosi un posto al tavolo della pace, prodromo alla guerra del 1859 contro l’Austria e all’unità d’Italia.
Quella contro l'Impero Ottomano fu una guerra nuova: rapidi sbarchi e primi bombardamenti aerei della Storia. Iniziate le operazioni il 28 settembre 1911, Tripoli cadde il 3 ottobre, tra l'entusiasmo di Giovanni Pascoli (“La grande proletaria si è mossa”) e di Gea della Garisenda, che, avvolta nel Tricolore, cantava: “Tripoli, bel suol d’amore / sarai italiana al rombo del cannon!”. Fra i rari dissidenti, Benito Mussolini.
La guerra continuò nel 1912, non di grande intensità, ma fra difficoltà evidenti: l’Italia stentava a consolidare la conquista al di là dei porti e doveva allargare le ostilità alla Turchia, occupando, nel maggio, il Dodecanneso. Le nubi preannunciate s'infittivano all’orizzonte. La Bulgaria mandò un ultimatum a Costantinopoli per il riconoscimento dell’autonomia macedone e, al rifiuto turco, dichiarò guerra, alleata con Grecia e Serbia. Due anni prima dell'attentato di Sarajevo, i Balcani erano già in fiamme. Incapace di sostenere una guerra su due fronti, l'Impero Ottomano optò per i Balcani. Per Cirenaica e Tripolitania si dovevano aprire negoziati con l’Italia, meglio se segreti.
A questo punto comparve Giuseppe Volpi, uomo d’affari veneziano, lo stesso che nel 1932 ideerà la Mostra del cinema di Venezia. Dotato di esperienza internazionale, Volpi capiva tutto del mondo ottomano. Non era un diplomatico di carriera, ma era un plenipotenziario nato: abile, energico, capace di smussare le più gravi asperità. A meno di 35 anni s'era assicurato una carica preziosa per la sua futura missione: console onorario di Serbia. Con l'immunità diplomatica poteva recarsi in Turchia anche durante la guerra con l’Italia. Utilizzò questa veste in una forma ripresa sessant’anni dopo da Henry Kissinger, non ancora Segretario di Stato americano, ma consigliere del presidente Nixon: in missione in Pakistan, lasciò un banchetto perché “non si sentiva bene”, ufficialmente andò a dormire, in realtà andò a Pechino in visita segreta, riaprendo il dialogo con la Cina.
Volpi andò a trovare il presidente del Consiglio, Giolitti, e gli offrì i suoi servigi: informarlo su progetti e intendimenti del governo turco. Giolitti acconsentì. Volpi partì il 6 giugno per Costantinopoli e dopo pochi giorni elaborava un trattato di pace: ritiro delle truppe turche dalla Libia “una volta risolta la questione balcanica”. Sottopose la bozza a Giolitti, che l’approvò. Dalla ripresa delle trattative – a Ouchy, quartiere di Losanna –, il governo ottomano ricominciò a tergiversare e Roma passò a una escalation: il 23 settembre la flotta italiana entrò nel porto di Smirne, il maggiore dopo Costantinopoli. Nuove controproposte: Tripolitania e Cirenaica all’Italia, ma il Dodecanneso doveva tornare alla Turchia. Volpi suggerì a Giolitti di rispondere con un ultimatum. Scadeva dopo tre giorni e, in caso di rifiuto, la flotta italiana avrebbe forzato i Dardanelli. L’ultimatum funzionò: il 18 ottobre fu firmato il trattato di pace, che all’Italia assegnava Tripolitania, Cirenaica e Dodecanneso. La Turchia riconosceva la perdita delle due province imperiali, ma in modo indiretto, cioè concedendo loro l’autonomia formale. Il Sultano, che era anche il Califfo (maggiore autorità spirituale dell’Islam), indirizzò un messaggio agli ex sudditi, il cui testo prefigurava quello di Hirohito, imperatore del Giappone, 45 anni dopo nell’annunciare la resa: “Per evitare la continuazione di una guerra disastrosa per il Paese, per voi e per le vostre famiglie”. Poco dopo le grandi potenze riconobbero la sovranità italiana sulla terra libica. La guerra di Giolitti e la pace di Volpi, un secolo fa, saranno tema di un convegno - promosso dalla Provincia di Milano - martedì 23 ottobre.
Venne la Grande guerra e costrinse Roma a cessare le operazioni in Libia. Le tribù ribelli ripresero buona parte del territorio. Con la sconfitta ottomana del 1918 e la nascita del regime Kemal Ataturk, la Turchia si staccò dai vecchi possedimenti, di modo che nel 1921 l’Italia ne avviò la riconquista. Nominato governatore di Libia ai primi del 1922, quando ministro delle colonie era Giovanni Amendola, Volpi si dedicò - oltre che alle operazioni militari (sua la riconquista di Misurata) - allo sviluppo: individuò una zona dove il petrolio affiorava, ma estrarlo dalle profondità fu impossibile senza le trivelle che Mussolini non volle acquistare da Howard Hughes. Volpi, che da privato aveva elettrificato mezza Italia, in Libia agiva da grand commis d'Etat. Alla vedova, molti anno dopo, Enrico Mattei dirà: “E' stato Volpi il vero fondatore dell'Agip”.
Anche l'urbanistica di Tripoli si deve a Volpi: caserme e grandi hotel, cattedrali e moschee. Sviluppò il lungomare.
Valorizzò le eredità architettoniche di Roma, come l’arco di Settimio Severo, e sottrasse alle sabbie del deserto Sabratha e Leptis Magna... Poi venne una nuova guerra, vennero Rommel e Montgomery. E infine il petrolio sgorgò, tardi per noi, non per Gheddafi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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