Lo zombi? Un'invenzione del XVII secolo

Lo zombi è un'icona pop. Merito di molti film horror, soprattutto quelli di George Romero, sei lungometraggi che portano i morti viventi a impossessarsi degli Stati Uniti mentre i vivi si nascondono per evitare il contagio. Invece gli zombi del videoclip Thriller, diretto da John Landis per la canzone di Micheal Jackson nell'84, danzavano spaventando la bella fidanzata del Re del pop. L'esordio sul grande schermo è però datato 1932, con White zombie, interpretato da Bela Lugosi. Tre anni prima l'antropologo William Seabrook aveva dedicato un saggio ad Haiti, l'isola caraibica patria del voodoo, risvegliando l'interesse del mondo occidentale per gli inquietanti morti che camminano.
Dietro agli zombi c'è infatti una vera e propria religione, tant'è che lo stesso vocabolo di origine africana, nzumbe, deriverebbe da zambi, ovvero «divinità». Il voodoo è un culto sincretico, miscuglio di animismo africano e cristianesimo degenerato (anche perché imposto dai colonizzatori europei). Ma non tutto è orrore, nel voodoo, i fedeli credono in un'entità universale, un dio unico poco interessato alle vicende umane. Esiste tuttavia una versione più popolare, legata alla «magia naturale», che cerca di rispondere alle esigenze pratiche degli adepti con la mediazione di figure che ricordano le divinità pagane e i santi cattolici. E allora serve lo stregone come tramite fra il mondo degli spiriti e quello degli uomini, per «zombizzare» qualcuno, portarlo in uno stato alterato di coscienza, di morte apparente. Pratica pericolosa, perché si rischia di diventare uno strumento inconsapevole della volontà del sacerdote voodoo.
Qualcosa del genere racconta il primo romanzo in cui compare la figura dello zombi, non-cadavere ambulante antropofago ma alterazione della coscienza per via magica. È Lo zombi del Gran Perù, scritto alla fine del 1600 dal francese Pierre-Corneille de Blessebois e pubblicato ora da Libri Perduti (pagg. 94, euro 11), editore impegnato nella nobile impresa di scovare bizzarrie editoriali e autori poco conosciuti di genere fantastico e d'orrore. De Blessebois era nato nel 1646 e non godette in vita di buona fama. Soprannominato «il poeta galeotto» e «il Casanova del XVII secolo», si era votato al crimine e alle gioie della carne (non decomposta, come quella degli zombi...). Trovò però il tempo di scrivere versi, tragedie e soprattutto opere satiriche e licenziose presto dimenticate dai contemporanei. Nel primo Novecento furono personaggi come Pierre Louÿs, Guillame Apollinaire e i Surrealisti a disotterrare quei volumi dalla sezione «Enfer» (inferno) della biblioteca nazionale parigina.
De Blessebois, dopo svariate imprese sessuali, amanti abbandonate nei bordelli, rivali uccisi in duello, una carriera da gigolò in Olanda, qualche accusa di stupro e la diserzione dall'esercito francese, venne «venduto» alla proprietaria di una piantagione di canna da zucchero sull'isola di Guadalupa. Lì si spacciò per stregone e ottenne le attenzioni di una contessa in preda a bollenti spiriti che intendeva sposare un ricco possidente. Al poeta gigolò, ora anche mago improvvisato, venne chiesto di lanciare una fattura sul concupito, farne morire la madre, trasformare la contessa in zombi, spirito aereo in grado di avere esperienze extracorporee. Ma il piano giunse alle orecchie delle autorità e scattarono gli arresi.

È molto probabile che la novella sia stata scritta proprio come autodifesa, per addossare alla nobildonna tutte le responsabilità. Da quel momento non si ebbero più notizie dell'autore: forse venne giustiziato. E da allora è un morto vivente.

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