da Roma
«Yes, week-end...». A Palazzo Chigi storpiano così lo slogan obamiano di Walter Veltroni, e lautore della sarcastica parafrasi è Romano Prodi in persona.
Ora che ha tirato i remi in barca, il premier uscente si gode da spettatore la campagna elettorale. Non aderisce e non sabota, si limita a guardare e a pensare al proprio futuro: non da nonno, ma «in qualche istituzione internazionale», assicurano i ben informati. Sul campo sono altri i giocatori, nel Pd sfuggito di mano al suo inventore, e la partita vera si aprirà dopo il risultato elettorale.
Il braccio destro dalemiano Nicola Latorre lo ha spiegato chiaro al dirigente ds che gli chiedeva perché DAlema non si fosse opposto allesclusione dei Socialisti di Boselli dallalleanza col Pd. «Noi obbediamo al segretario del partito. Fino al 13 aprile», gli ha risposto Latorre. Sibillino, ma non troppo: se il leader non riuscirà a trascinare il Pd oltre i risultati ottenuti da Ulivo e da Ds e Margherita, verso il 34-35%, dovrà fare i conti con DAlema e con il suo nutrito pacchetto di mischia «sudista».
Lo schema che si era dato Veltroni, ben consapevole del fatto che lui dentro il Pd (come a suo tempo nei Ds) non ha truppe, filiere e controllo sugli apparati superstiti, era quello di aggiudicarsi un risultato che blindasse la sua leadership, e di promuovere dei gruppi parlamentari «rinnovati» a sua immagine per crearsi una classe dirigente nel partito. Ma questa seconda parte del suo disegno è stata azzoppata: al tavolo delle candidature si è creato un asse di ferro tra Latorre e il mariniano Fioroni, che ha piazzato uomini di DAlema e del Ppi nei posti chiave. Mentre il vice segretario, Franceschini, pensava al suo pacchetto di fedelissimi, e il plenipotenziario veltroniano Bettini «si occupava della grandi questioni politiche, tipo lalleanza con i radicali, e poi andava a dormire presto, lasciando campo libero alle manovre notturne di Fioroni e Latorre», racconta un testimone.
Così è accaduto che, mentre Veltroni inseguiva capilista di «immagine» ma di scarsissima esperienza politica (Colaninno, Calearo, Madia, Veronesi, eccetera), DAlema otteneva la deroga per molti suoi parlamentari di provata fede e sperimentata abilità, dal toscano Ventura al lucano Luongo, dal laziale Sposetti al campano De Luca, spazzando via i fassiniani. E, soprattutto, il ministro degli Esteri è riuscito a fare dellintero Sud dItalia il proprio territorio: «Del Mezzogiorno ci occupiamo noi», hanno teorizzato apertamente i dalemiani al momento di decidere le liste. Controlla la Puglia, dove è capolista e da dove sono stati espulsi parlamentari di rilievo come Caldarola e Rossi (avvicinatisi troppo a Veltroni), attraverso Latorre e il sindaco di Bari Emiliano, segretario regionale, nonché il ministro De Castro. Controlla la Campania, dove pure si è candidato, assumendosi un forte rischio, per rilanciare le sorti di una regione dove il centrosinistra va a picco, e per fare scudo al suo alleato Bassolino. La Calabria, dove comanda Marco Minniti (che ha ricucito i rapporti con il pencolante governatore Loiero), la Basilicata con Luongo e Bubbico e anche la Sicilia, dove sono schierati Anna Finocchiaro alla Regione e Crisafulli alla Camera. Non risparmia energie nella sua campagna, DAlema: laltro giorno era sul sagrato di Santa Rita a Bari, durante la benedizione delle Palme, a consegnare al parroco la delibera con cui il Comune finanzierà un centro sociale. Oggi sarà alla processione del Venerdì Santo in quel di Gallipoli. Tiene ai rapporti con i cattolici (le indicazioni dei preti al Sud ancora contano tra gli elettori) e forse - insinuano i sospettosi - anche a dare una mano allUdc, che in un futuro Senato in bilico potrebbe tornare utile. Non per nulla in Campania De Mita fa la guerra al Pd ma salva DAlema («Lunico capace di comunicare») e in Sicilia Crisafulli va damore e daccordo con Totò Cuffaro.
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